Erano giorni che m’invitavano e non potevo più rifiutare. Non avevo idea di chi o cosa m’aspettasse: avevo un’ora e un luogo da raggiungere, nient’altro.
Accesi una sigaretta e misi in moto l’auto. L’asfalto di sera sembrava uccidere le ruote: consumava e faceva più rumore.
Dietro solo la nebbia.
Arrivai e trovai posto sotto la luna che s’era spenta per scherno, bastarda come sempre.
Presi fiato e l’ultima boccata di fumo mi punse gli occhi fino a farli lacrimare. Entrai senza bussare, allargai le pupille nella foschia di una stanza strozzata da una livida luce, mi scrutai attorno e tossii.
Il divano era coperto da un violento strato di polvere di persone o da persone in polvere. Il pavimento pareva ovattato, come sepolto da un tappeto di ceneri umane.
Soffitto non c’era, ma in sua vece una coltre di nubi galleggiava a qualche palmo dalla testa.
Canuti i capelli divennero all’improvviso, l’ombra sbiadì nella fuliggine di un muro cariato. Intravidi una sagoma spaiata, poi una tortora, poi un topo.
Soltanto ora m’apparve tutto il grigio che c’era sempre stato e fu deserto di notte davanti a me.
In quell’incubo insipido senza spessore invocai il nero bruciato di una sorte migliore.