Mi infilo gli slip cercando di fare come le ragazze nelle pubblicità. Improvviso movimenti sensuali, faccio il possibile per apparire ancora provocante. Una donna deve sedurre l’uomo anche quando ha finito di fare sesso, dicono le riviste da ombrellone.
In realtà mi sento goffa, brutta. Vecchia. Una donna scaduta.
Lui fa uscire dalla bocca volute di fumo, annebbia la stanza. Si è messo a fumare, forse lo fa sentire più uomo.
Lo vedo di spalle, piegato in avanti. I capelli corti e addormentati, la schiena nuda e bianca, chiazzata di nei. I movimenti sono rilassati, eppure danno l’impressione che siano dettati da troppo autocontrollo. Come se non lo mettessi a suo agio, come se dovesse per forza dimostrarmi che lui è un adulto. Forse è più agitato di me, che mi tormento di domande.
Diamine, ha soltanto ventun anni. Come ho potuto? Come abbiamo potuto?
Non vedo il suo volto. La barbetta che incomincia a farsi fitta, pungente; gli occhi color nocciola, le labbra chiuse in un sorriso spavaldo. È quasi uomo.
Siamo sullo stesso letto, ora la mia gamba sfiora il suo bacino. Vicinissimi, eppure lontani più che mai.
Ora che indosso le mutande mi sento meglio. Più sicura, meno violata.
Penso che quasi non mi sembra vero di aver tradito mio marito con un ragazzino.
Abbiamo fatto sesso per tutta la notte, o forse l’amore.
Siamo durati fino all’alba, i nostri corpi singhiozzi nel buio.
Fuori i primi raggi solari entrano nella stanza. Sono deboli, impauriti. A malapena qualche uccello si mette a cantare. La natura è ancora addormentata, le auto riposano nei loro garage, l’umanità dorme il sonno dei lavoratori stanchi.
“Questo si chiama fare l’amore?”, mi domanda mentre si infila un calzino. Saltella sulla moquette per non perdere l’equilibrio. Sono piccoli rumori che implodono nella stanza silenziosa, un ritorno alla realtà che rosicchia la quiete. Piano piano la scena si fa vivida. I miei occhi intorpiditi di colpo riprendono a vivere. È come svegliarsi dopo un sogno.
“No. Questo è sesso.”
“Non si fa sesso con i propri allievi.”
Eccolo lì, quel sorriso sornione. Pensa di essere seducente, o forse di incastrarmi. Adesso stai a vedere che è tutta colpa mia, penso, che magari l’ho costretto io a venire a letto con me.
Io non mi sento in colpa, ho una percentuale di responsabilità che è pari alla sua. Anche se ci togliamo vent’anni siamo entrambi adulti. Abbiamo deciso entrambi di buttarci su questo letto. Di venire in un hotel di lusso perché le cose vanno fatte per bene, e un motel no, quello proprio no, troppo squallido.
“Beh, ma io non sono innamorata di un ventenne.”, gli rispondo tirandomi su dal letto.
Le ultime parole famose.
Ci prepariamo la colazione da soli. Riempio d’acqua il bollitore e verso su una tazza una bustina di Nescafè in polvere. Lui invece preferisce il tè. Quando l’acqua comincia a bollire la verso nelle tazzine. Cerco di riempirle della stessa quantità di liquido ma poi finisco col versare più acqua nella sua tazza. Sono una mamma premurosa, o forse un’amante innamorata.
Vorrei dirgli che siamo uguali, che adesso non condividiamo soltanto una stanza d’albergo ma un segreto. Che se abbiamo sbagliato lo abbiamo fatto entrambi, perché su quel letto ci siamo stati tutti e due. Ma poi non ce la faccio, me ne sto zitta. Mi tengo per me questi pensieri. Do un sorso alla mia colazione che poi lascio lì sul comodino a raffreddare: questo caffelatte è troppo bollente, lo berrò più tardi.
Me ne vado in bagno a finire di vestirmi, cammino con passi corti e piccoli, le mie gambe sembrano zampe. Chiudo la porta del bagno e brividi di freddo ricoprono la mia schiena di latte. Mi sento stupida e non capisco perché debba rivestirmi lontana da lui quando fino a qualche ora prima i suoi occhi scavavano il mio corpo, mi denudavano con foga e malizia. Ed io me lo lasciavo fare. Colpevole, passionale.
Valuto l’ipotesi di farmi una doccia veloce e così mi tolgo di nuovo gli abiti di dosso. Li poggio sopra il water, non voglio che tocchino terra, quel pavimento che chissà chi ha pestato. Ecco, incomincio ad essere nervosa, mi conosco troppo bene. Quando divento eccessivamente ordinata o fissata con la pulizia c’è qualcosa che dentro di me non funziona, come un’equazione matematica sbagliata, un cocktail con troppo alcool.
L’acqua lenisce il senso di colpa, che ora che la luce si è fatta più forte prende forma, si avvicina. Mi minaccia, mi spaventa.
Con movimenti circolari mi accarezzo il volto, il seno. E poi passo al mio sesso che caldo ancora pulsa. Questa notte ha vissuto più di me. Insieme al sapone colano via l’odore del suo dopobarba, la scia dei suoi baci sul collo, lo sperma che adesso si è asciugato, lasciandomi la pelle opaca e appiccicosa.
Sono colpevole e rigenerata. Eppure così giovane, viva.
Mi sembra di respirare davvero per la prima volta.
Scendiamo nella hall dell’albergo e basta incontrare gli occhi del receptionist per capire che non ho nulla da dover nascondere: ha già capito tutto.
Nei suoi occhi rivedo la scena, quelle pupille sono un megaschermo che trasmette la mia notte di sesso. Da qualche parte escono i suoni: il letto che cigola, i piccoli saltelli di lui che si infila il calzino, il contenuto della bustina di caffelatte che si rovescia sulla tazza, lo scroscio dell’acqua.
“Tutto bene?”, ci domanda senza togliermi gli occhi di dosso. Indagatori, curiosi.
Annuiamo ed io chiedo il conto, mentre Daniele si guarda attorno come un bambino. Osserva incantato il lampadario, il televisore enorme che trasmette un notiziario a basso volume, le poltrone immense e ancora addormentate.
Sembra che non sia mai entrato in un hotel.
Le sue espressioni ed i suoi movimenti tradiscono l’inesperienza, la gioventù che questa nottata mi ha prestato. Ma solo per poche ore. Adesso sono tornata la quarantenne che sono, la donna di famiglia e di mondo. Siamo io ed una casa da sistemare, un marito che m’aspetta, pranzi e cene da preparare, i compiti di venerdì da correggere e consegnare. Diana da svegliare presto e accompagnare a scuola.
Sono una donna forte e severa, dentro fin troppo duttile. Come quelle caramelle dure ripiene di succo.
Trovo rigidi persino i miei movimenti, non solo i modi di fare: cammino con la schiena e le spalle diritte, faccio attenzione a tutto e a tutti. Ho paura che tutti mi vogliano fregare, ed è per questo che io fuggo dalle telefonate della Telecom, dalle interviste, dai promoter. Temo addirittura che anche i testimoni di Geova possano rubarmi qualcosa, loro e quei giornaletti che ti regalano.
Eppure stasera sono stata fin troppo morbida. Una donna di pongo che si è fatta tentare dalla promessa di una notte di giovinezza. Da un corpo morbido, da una lingua ruvida che ti scava il collo e le scapole.
Una donna che è uscita con un suo allievo, che chissà come la guarderà lunedì mattina in classe.
Pago per entrambi, mi fa sentire padrona della situazione. Tiro fuori dalla borsa il mio portafoglio Gucci, un regalo di Paolo.
Stringo le banconote nelle mie mani e poi le passo all’uomo dell’albergo mentre Daniele ancora si guarda attorno coi suoi piccolo occhi appuntiti. Sento la carta scivolare dalle mie mani, i soldi che se ne vanno via dal mio palmo.
Mi sento derubata da quella notte, una pistola puntata sulla fronte.
Penso che trasudo marchi e prestigio, che vesto firmata e ho una casa enorme, una 147 parcheggiata qua fuori che presto mi porterà a casa. Sono la donna che ho sempre voluto essere, ricca e sfacciata. Ma stanotte ho elemosinato due braccia attorno al collo da un ragazzo di vent’anni, come una tossica della stazione, una malata d’amore.
Daniele mi porge una banconota da venti euro quando stiamo per uscire dalle porte scorrevoli. Tende il suo braccio verso di me timidamente, i soldi stretti nella mano come un pugno di sabbia.
Lo guardo e gli sorrido. Ha gli occhi stanchi come quelli di un bambino. Quei soldi puzzano di portafoglio, lui che i soldi li mette sempre in tasca, che li chiede ai genitori perché ancora non lavora. Non sono suoi, ci scommetto tutto quel che ho.
Io quei soldi non li prendo, lo ignoro.
“Con quelli manco la colazione in stanza puoi pagare. Mettili via.”
Ci buttiamo in via Roma, facciamo una piccola passeggiata in centro perché è troppo presto e i genitori sanno che dorme da un amico, non può certo piombare in casa alle sette del mattino.
Camminiamo come due derelitti. Lui per poco non dorme in piedi ed io ho le gambe stanche, questi tacchi non fanno per me.
Gli abiti del giorno prima che abbiamo addosso sanno di profumo stantio, sembrano fiori appassiti. L’etichetta del vestito mi punge la schiena, voglio il mio pigiama comodo.
Cerchiamo un bar, un posto in cui io possa sedermi e tenere a riposo i miei polpacci, che sono duri come due pomodori maturi.
Lui ordina una spremuta d’arancia ed un cornetto alla crema in un bar completamente bianco di Piazza Castello. Ci sediamo dentro: fuori fa ancora fresco, sembra che un vento gelido abbia appena smesso di soffiare.
Io bevo un altro caffè guardando le poche macchine che passano per la strada, un ragazzo ed una ragazza che mano per mano attraversano la strada, lei bellissima e lui col volto adirato. Sono una strana coppia, hanno in volto emozioni diverse… Eppure queste piccole differenze sono trascurabili. Sono più dei fastidi, un morso di zanzara.
Siamo io e Daniele quelli completamente diversi. Opposti ma comunque conciliabili.
Guardo le sue mani che trafficano con il bicchiere e i tovagliolini di carta e poi le mie. Ho la fede al dito, non me la sono tolta, non ci ho proprio pensato.
Paolo…
Paolo, che ora starà sicuramente dormendo nel suo pigiama a quadri.
Penso che se voglio non potrà venire a sapere di me e Daniele. Io ho addosso una fede, mica il marito.
Daniele si alza e tira fuori dalla tasca i venti euro che prima non ho preso. Paga la colazione ad entrambi e stavolta non apro bocca, lo lascio fare.
Lo ringrazio quando usciamo dalla parte dei portici. Accarezzo una sua guancia con la mano e lui prima chiude gli occhi, accenna un sorriso stanco. Poi riapre gli occhi e guarda l’anello. Il suo volto si rabbuia. Passano due secondi, forse anche meno. C’è tensione fra noi. Mi guarda preoccupato, come se in quel pasticcio mi fossi cacciata solo io, come se a casa mi aspettasse un marito duro e violento che chissà che cosa mi farà. Come se io tornassi a casa e dicessi a mio marito che l’ho tradito con un mio studente.
Penso a Paolo, al suo metro e ottanta di tenerezza. Ai suoi capelli brizzolati, al suo sorriso spericolato.
Mi sento l’anima sporca, la coscienza nera come un incubo.
“Non guardarmi così.”, gli dico. La mia è una preghiera, mi sento davvero male.
Gli spiego che un anello al dito non è mica una minaccia, ma una promessa di fedeltà. Che forse abbiamo sbagliato, che sono stata la solita impaziente. Che non succederà più.
L’aria fresca dell’alba incomincia a tirare, lievemente.
“Ora che c’è un po’ di vento mi sento meglio.”
Sono una bugiarda: dentro sto morendo.