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Dipende dal nome

Fatti un nome!

Questo era il consiglio delle nonne. Il detto popolare infatti recitava per esteso: “fatti un nome, piscia a letto e diranno che hai sudato”. Il fatto che fosse un detto popolare ci porta a pensare che il concetto di nome come brand, come firma, sia sempre esistito, anche se probabilmente non in maniera così pervasiva come nella società di oggi.

La riflessione mi è venuta in mente nei giorni scorsi, quando l’allenatore italiano Roberto di Matteo è stato esonerato dal patron del Chelsea Roman Abramovich, dopo la brutta sconfitta con la Juventus in Champions League. Di Matteo, come ha ammesso la stessa società, rimarrà nella storia del club per aver conquistato qualcosa che negli anni era sempre sfuggito al club: la Champions League (e incidentalmente anche una FA Cup), il tutto arrivando in panchina a marzo del 2012.

Inutile fare un calcolo di quanto il patron Abramovich abbia investito nel Chelsea, rilevato ormai nel lontano 2003, per arrivare sul tetto d’Europa con la sua squadra. Un parco giocatori da centinaia di milioni di sterline tra acquisti e ingaggi e una flotta di allenatori (Claudio Ranieri, lo special one Josè Mourinho, Avraham Grant, Felipe Scolari, Guus Hiddink, Carlo Ancelotti, Andrè Villas-Boas) prima di arrivare a vincere con Di Matteo il trofeo tanto sognato.

Ma Di Matteo ha un grande difetto, agli occhi di Abramovich: non è un nome. Non è un brand. E’ semplicemente un bravo allenatore che ha colto la sua occasione ed è riuscito a vincere. Quindi per Abramovich via Di Matteo e avanti Benitez, sognando di poter ingaggiare a fine stagione il brand dei brand per il mercato allenatori: Pep Guardiola.

Se trasferite questo discorso in qualsiasi campo troverete una conferma. Dal manager che in vita sua ha collezionato solo disastri ma continua a essere il nome giusto per ogni poltrona, al cantante che ormai ripete sempre la stessa melodia ma a cui in “nome del nome” viene concesso di fare l’ennesimo disco.

E l’editoria? Specie nel periodo natalizio, che rappresenta una bella fetta delle vendite annuali per le case editrici, interi scaffali sono dedicati alle pile dei libri di qualche autore che (a volte in tempi neanche così recenti) si è guadagnato la fama di bestsellerista. Tutti i nomi che contano potranno contare sicuramente contare su un’autostrada aperta davanti al suo libro come distribuzione e come pubblicità in generale.

Ma questo rincorsa al “nome” cosa comporta? Che in tempi di investimenti ridotti e budget ridotti al lumicino gli editori, i discografici, i presidenti della squadre di calcio (e potremmo continuare all’infinito) scelgono di puntare in maniera (quasi) esclusiva sui “nomi”, su coloro che possono garantire potenzialmente il successo garantito. SI vuole andare a colpo sicuro.

E gli altri? Eh, dispiace ma non si può rischiare di affidarsi a qualcuno fuori dal giro. Si facciano un nome prima.