Questo non è un resoconto di #Librinnovando, non ci assomiglia nemmeno. Non credo di averne i mezzi, o il diritto. Questa è una specie di riflessione a margine su un tema a me caro, toccato a Milano nell’ambito dell’evento.
Come sempre accade in questi contesti, un boccone volante in una tavolata di sconosciuti mescolati alla rinfusa chiarisce le idee meglio di cento ragionamenti. A dire il vero, giova molto il fatto che tra gli sconosciuti ci siano un po’ di signore Menti, perché altri-menti (scusate la rima) i concetti avrebbero continuato a ronzare nebulosi.
Insomma, per introdurre ai presenti la sua start-up di scrittura condivisa 20lin.es, Alessandro Biggi ha usato la formula magica: «avvicinare finalmente autori e lettori». Una frase che ho sentito sempre più spesso, ultimamente, riguardo all’universo del Web. E a me, questa cosa dell’”avvicinare autori e lettori”, puzza. Nel senso che, per usare una metafora forse un po’ criptica ma accurata, suona come quelle che si fotografano su Instagram con ampia porzione di tetta a vista e la didascalia COME SONO STANCA MI BUTTO SUL DIVANO: un pelo ipocrita.
L’intervento successivo, di Tommaso Caravani dell’ANES, ha giocato tra il serio e il faceto con l’epopea letteraria di una sedicente amica del relatore, che “avvicinando autore e lettore” ha pubblicato il proprio romanzetto con una piattaforma di self publishing. Grazie a un assalto ai social, tastiera tra i denti, ha ottenuto un discreto successo; risultato finale: sebbene l’opera non sia proprio impeccabile, si parla di un interesse da parte di una casa editrice non identificata – ma d’alto profilo, pare.
La mattinata è trascorsa tra numeri e riflessioni parimenti illuminanti, ma il tarlo del rapporto autore-lettore continuava a smangiucchiarmi. Poi è arrivato il pranzo, benedetto fu il ristorante cino-nippo in zona e santi subito i commensali – spenderei parole d’elogio anche per il mio pollo teriyaki, ma non sono sicuro che abbia un ruolo preciso nell’ingranare dei pensieri.
Partendo dalla scrittura condivisa propugnata da 20lin.es, che l’ha fatta a fette a un buon 50% del tavolo (escluso il sottoscritto, per la cronaca), si è passati a riflettere più precisamente sul valore letterario di un esperimento che profuma più di gamification che di forma d’arte. Ovvia la respinta: se a scrivere 20 righe a testa non fossimo io, tu e mio cugino, ma King, Allende, De Lillo e Palahniuk, allora la qualità sarebbe un’altra. «Certo», ha replicato alla mia affermazione colui che successivamente ho rivisto sul palco, comprendendo troppo tardi che di fronte avevo seduto un relatore del pomeriggio, «però ammettiamo che quello della scrittura condivisa non è metodo riproducibile serialmente da un editore, soprattutto se coinvolge nomi importanti».
Ed è stato lì che la lampadina si è accesa.
L’editore è il soggetto che il futuro apocalittico del lettore avvicinato all’autore vuole murato in bagno come Fantozzi, mentre fuori il mondo prosegue. Tanto chi volete che noti la sua assenza? Ce la caviamo benissimo anche da soli, no?
Ecco, no. Secondo me no.
Prendiamo il nostro magico libro condiviso scritto venti righe a testa dai paladini del romanzo. Pensate per un attimo di tramutarvi, non so, in Einaudi, in Guanda, in Minimum Fax. Scegliete il vostro preferito.
Con un gesto di schizofrenia, rimanete anche voi stessi: conservate il vostro Io di avido lettore, voglioso di buona letteratura.
Io vogliosi, cosa vorreste dall’Io Einaudi?
Io vorrei un buon libro, sostanzialmente. Non chiedo molto, no?
Bene, il vostro ruolo di Io editore dovrebbe occuparsi di come quel fulminante manoscritto a dodici mani è stato prodotto? Secondo me, no. Voi editore, se qualcuno vi bussasse sulla spalla chiedendovi da dove arriva quella roba che scotta, vorreste saperlo perché siete appassionati, siete curiosi, siete intelligenti. Ma tutto sommato non è affar vostro. Vi basta sapere che quel capolavoro – ma anche quel buon libro, eh – esiste ed è pubblicabile, diffondibile, commerciabile.
I vostri Io di avidi lettori hanno bisogno oggi, avevano bisogno ieri e avranno bisogno sempre, di qualcuno che selezioni per voi il materiale, scremando il giochino mio, tuo e di mio cugino dalla letteratura. Forse oggi che tutti scriviamo ancora di più, oggi che ci sono mille possibilità di sparare le proprie frasi impacchettate in epub e in blog e su piattaforme d’ogni tipo, il problema di una start-up che spinge la gente a scrivere, a pubblicare, a esprimersi, non dovrebbe essere “avvicinare l’autore al lettore”, ma fornire materiale valido agli editori che lo sappiano cogliere. Il problema non è invogliare la gente a scrivere, e nemmeno regalare un pubblico a chi scrive; il problema dovrebbe essere: stuzzicare la gente alla lettura.
E questo, volenti o nolenti, è un compito degli editori e di come questi sanno offrirci buona lettura.
Poi, sia chiaro, non ho nulla contro l’autoproduzione: è che prevede a monte una capacità di autodeterminazione molto, troppo sincera. E in parecchi scrivono e autopubblicano preda del proprio subconscio – siamo ottimisti! – che gli sussurra all’orecchio: “soldi… soldi… fama… fama…”. E così, con la scusa di “avvicinare autore e lettore”, si fotografano una tetta sperando che il mercato ci caschi. Ma il mercato, purtroppo per tutti noi, è asessuato.
E noi lettori abbiamo poco tempo.