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Sul libro digitale

Per il mio compleanno mi è stato regalato un Kindle, vale a dire il dispositivo di lettura per gli ebook dell’Amazon.
Chi me lo ha donato, un paio di giorni prima mi dice una cosa del tipo: ho pensato di darti una cosa che può cambiarti la vita, aggiungendo, non senza un pizzico di malizia, sempre se lo saprai apprezzare. Si riferiva al Kindle ovviamente.
Poi tra le mani ho avuto questo mini tablet e mi sono scaricato due o tre libri.
La cosa mi ha incuriosito al punto da spingermi a guardarmi intorno e a fare un mini sondaggio tra amici e conoscenti.
Cosa pensi dell’ebook?, chiedevo.
Le risposte erano di rifiuto assoluto (sai, per me, il libro è quella cosa che ha delle pagine che si sfogliano, odorano, si maltrattano) o di consenso altrettanto assoluto (sai, il libro, così come lo pensiamo, non ha più senso).

Ma, se il libro digitale suscita reazioni così diverse, forse è il momento di qualche riflessione più meditata.
Intanto una nota tranquillizzante. Il libro digitale condividerà con quello a cui siamo più abituati un percorso di due o tre generazioni.
Almeno questa è una sensazione.
Un’altra considerazione è che il libro digitale supera radicalmente l’idea di pagina. Ciò significa che trascende l’ordine dello spazio perché è fatto per adattarsi a dispositivi diversi (iphone, tablet, computer). Questo significa che gli editori o gli addetti ai lavori devono compiere una rivoluzione mentale a 360°.
Seicento anni di storia e tradizione non si cancellano con la bacchetta magica. Il punto di riferimento per ogni redattore editoriale è stata la pagina. È lì che il testo si collocava, ed è da lì che sono nate parole come giustezza, grafismo e contrografismo, interlinea, gabbia d’impaginazione, sino a disturbare la famigerata proporzione aurea. Insomma tutte queste parole astruse indicano il rapporto corretto che in un libro lo scritto deve avere rispetto al bianco della pagina per un giusto grado di leggibilità. Con l’ebook questo problema non esiste più. I supporti sono di dimensioni variabili, i caratteri si possono ingrandire o rimpicciolire, e così via.
D’altronde va anche detto che è dall’inizio degli anni novanta che i libri, sì quelli a cui siamo abituati, sono il prodotto di una tacnologia digitale. Nel 1984 nasceva il primo Macintosh (per gli amici semplicemente Mac), computer rivolto a chi produceva libri o riviste. I termini “desktop publishing” (editoria da tavolo) o WYSIWYG (acronimo che sta per l’inglese What You See is What You Get (“quello che vedi è quello che è” o “ottieni quanto vedi”) per i software sono nati in quegli anni e fu una rivoluzione che modificò e di molto il modo di lavorare sul testo.
C’è, però, una differenza con quella che si prospetta con la diffusione degli ebook. Non
coinvolgeva la massa dei lettori.

Ma perché oggi si parla di ebook con maggior interesse? E soprattutto può la crisi economica dell’occidente essere la causa di questa attenzione? Tralascio le discussioni che vedono impegnati esponenti delle più disparate discipline per sottolineare un elemento non secondario del testo digitale: costa la metà di un libro cartaceo. Per usufruirne basta possedere un supporto e accedere ad una rete wi-fi. Ogni dispositivo contiene dai due ai tremila volumi, ed è come portarsi dietro una biblioteca.
A ciò si aggiunga che ogni giorno chiude qualche libreria. A Napoli, zona Vomero, con un numero di abitanti pari a quelli di una città come Siena, ci solo due punti vendita di una qualche importanza. Nel quartiere di Chiaia negli ultimi anni hanno chiuso sei o sette librerie e non credo che in altre città vada meglio.

Ogni considerazione sulla dispersione della cultura mi pare superflua così come mi pare inutile ogni discussione sulla bontà o meno del libro digitale e sulle nuove tecnologie. Queste sono lo scenario in cui siamo immersi e l’orizzonte più vicino a noi.
Il rischio piuttosto sta da tutt’altra parte. Digital divide, lo si chiama in gergo, ed è la differenza tra chi ha accesso ai nuovi strumenti di comunicazione e chi non ha questa possibilità per ragioni economiche, politiche, etniche, d’età, culturali. Il pericolo è di creare una nuova frattura sociale tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri…
Agli inizi degli anni ottanta Lyotard definiva ricchi i paesi che gestivano l’informazione e le tecnologie che ne erano alla base.
Oggi, per eliminare qualsiasi gap, abbiamo il dovere di immaginare uno scenario diverso, uno scenario in cui gli strumenti di comunicazione s’immergono nel sociale, favorendo la più larga partecipazione.
Ma questo già era il sogno utopico di Marcuse.