Sofia nasce da un parto d’urgenza, viene al mondo troppo presto, quasi catapultata nella bolla di dolore della vita. E riceve da subito uno schiaffo e un insegnamento tosto: è necessario imparare ad essere duri, la nascita è “una nave che parte per la guerra”. Ad impartirglieli è l’infermiera del reparto che, al posto di consolanti ninne nanne, le canta i versi di un’avventura esistenziale molto travagliata.
Ma non ci si aspetti da questo inizio tradizionale, coincidente con una nascita, uno sviluppo narrativo lineare, in cui le fasi dell’esistenza di una donna si snodano con cadenza cronologica precisa. Paolo Cognetti, giovane scrittore milanese, sceglie la modalità del racconto breve nel suo ultimo libro “Sofia si veste sempre di nero”, come d’altronde anche nelle sue opere precedenti, per dar vita questa volta ad un “romanzo di racconti”, presentati in una successione apparentemente casuale, e il cui unico elemento di continuità è rappresentato proprio da Sofia, una bambina, poi una ragazza e una donna, che segna le vicende altrui con la forza del suo esserci, ma anche con quella del suo negarsi.
Attorno a lei sfila una sequela di personaggi, il padre con la sua doppia vita sentimentale, la zia con un passato di terrorismo, la madre contenuta dentro un malessere inespresso, e di luoghi, la casa di Lagobello, alla periferia di Milano, dove ha passato un’infanzia segnata dal conflitto tra i genitori, la clinica del ricovero dopo il tentato suicidio, il laboratorio teatrale, una casa romana condivisa con altre ragazze ed infine un set cinematografico newyorkese, tutti evocati con una scrittura fluida e poetica che rende giustizia delle molte dimensioni dell’esistere rappresentandone ad un tempo la gravità e la leggerezza. Su tutte, Sofia campeggia col suo stile indefinito, che pesa per la qualità delle scelte fatte, del dolore patito, e nello stesso tempo s’invola leggera oltre il tempo della Storia, con le sue crisi economiche e le sue catastrofi naturali. Una sorta di Angelica di ariostesca memoria, che fugge e fugge mentre attorno a lei cadono imperi e s’innamorano uomini.
Fin qui i pochi appunti suggeriti dalla lettura del libro. Ma, data la fortuna di aver incontrato l’autore, preferisco lasciare le altre suggestioni alle sue stesse parole, proferite davanti ad una birra che non è mai arrivata.
Rispetto alle tue motivazioni originarie, che hai espresso anche nel tuo blog (http://paolocognetti.blogspot.it/), cioè quelle di voler raccontare la figura di una ragazza nata alla fine degli anni ’70, anche attraverso gli avvenimenti storici che si susseguono in quegli anni, ritieni di essere soddisfatto di avere operato una narrazione per incastri attraverso le diverse testimonianze di persone che sono state attorno a lei, oppure l’avresti fatta parlare anche in prima persona?
Ho pensato tanto se scrivere un racconto in prima persona da parte di lei, ma sicuramente ti posso dire questa cosa: mentre il progetto di voler anche raccontare la nostra epoca, il nostro paese, mi sarebbe sicuramente sembrato troppo ambizioso, mi avrebbe impaurito, questa cosa di averlo fatto attraverso le persone, che poi sono quasi tutte persone che conosco essendo miei amici, è stato molto bello, nel senso che il bisogno mio principale era quello di catturare le vite di alcune persone.
Ho letto che ti sei ispirato al libro “Olive Kitteridge”, che anch’io ho trovato splendido…
Stavo già scrivendo il mio libro, ma leggere quello di Elizabeth Strout mi ha aiutato molto. Nel libro Sofia non solo è il legame della struttura da racconti incastrati, ma anche il tentativo di riuscire a raccontare un personaggio… cioè Olive è un personaggio davvero antipatico, quindi con Sofia c’era l’idea di innamorarsi di una persona oscura, che non ti dovrebbe fare simpatia, ti dovrebbe respingere, invece è per questo che ti attrae.
Ho notato anche la sua voglia non tanto di apparire, quanto di scomparire, come se la descrizione avvenisse per sottrazione, se pensiamo al suo tentativo di suicidio, all’anoressia, alla sua allergia agli addii e al fatto di non voler rappresentare la morte. Tutto ciò è legato alla sua storia personale o è paradigmatica di una modalità giovanile odierna?
Questo non te lo saprei dire, però sicuramente per lei i legami sono quello che ha visto tra i suoi genitori e quindi l’idea di legarsi… io spesso l’ho pensata come un buco nero, un buco nero è un corpo celeste che non si può vedere perché ha una tale attrazione gravitazionale che attira tutta la luce e non riflette nulla e l’unico modo in cui lo puoi studiare è vedere come agisce sullo spazio che ha intorno. Mi hanno detto che, tra tutti i personaggi, alla fine quella inafferrabile è proprio Sofia, non so se questo fosse il mio scopo, ma sicuramente è il modo in cui mi sono avvicinato. E’ come il discorso delle case, tutte queste case che ci sono, il fatto che una casa racconti la persona che ci abita, la vita di una casa è come se scrivessimo su una pagina bianca, la riempiamo di parole, e così allo stesso modo era un raccontare Sofia forse non andando dritto verso di lei, ma vedendo come modifica le cose intorno a sé, le persone.
Anche nei tuoi libri precedenti tu parli di famiglie disfunzionali, credi nel modello familiare e quindi ad un suo recupero, oppure non ci hai mai creduto?
No, non ci credo, mi sembra la prigione del nostro tempo.
Ma è una prigione che esiste da tantissimo tempo…
Io non vorrei farmi delle illusioni, ma penso che in altre epoche non sia stato così, cioè mi sembra che più i legami sociali si indeboliscono, più la famiglia e la coppia assumono importanza, insomma sono tutto quello che rimane come possibilità di relazione; per esempio, ma quanto era forte il legame che avevi con i tuoi colleghi di lavoro o con i tuoi compagni di partito! La famiglia era un po’ meno importante, quanto era forte il legame che avevi con la gente che abitava con te in campagna perché si lavorava tutti nello stesso posto, e in qualche modo si spartiva un’idea, un progetto di lavoro, la famiglia era meno forte, credo. Penso che adesso la famiglia sia fortissima perché è l’unica cosa che rimane, a livello di relazioni, ma questo mi sembra molto triste.
Ho notato che nei tuoi racconti non ci sono i vecchi, è per via della tua età o non li ritieni interessanti narrativamente?
Sono cresciuto senza nonni come tanti figli, i miei sono emigrati dal Veneto, tutti i miei amici erano figli di immigrati dal sud… ho sempre avuto questa sensazione che eravamo senza vecchi, non è un’idea, è un’esperienza.
Rispetto alla scelta del racconto come dimensione dello scrivere, perché, secondo il tuo punto di vista, l’America ama questa tipologia di racconto ed in Italia il gradimento è meno forte?
In America ci sono due cose importanti che noi non abbiamo. Una è il fatto che i corsi di scrittura siano così diffusi, avanzati e implementati all’Università, per cui se studi letteratura a un certo punto fai un corso di scrittura creativa, dove ti metti tu a scrivere e ovviamente in quel momento ti confronti con il racconto, non puoi pensare di cominciare con il romanzo, e quindi il racconto è il modo con cui le persone si avvicinano alla scrittura. L’altra cosa importante è che lì ci sono le riviste letterarie, che ci sono anche in Italia, ma che hanno meno importanza; da noi non c’è niente di simile al New Yorker o comunque a quelle due o tre riviste veramente importanti che le persone leggono. A volte qualcuno dice che il racconto non appartiene alla tradizione italiana, a volte qualcuno dice invece che il romanzo non appartiene alla tradizione italiana, che anche questo è vero, però se ci pensi veramente mi vengono in mente Verga, Pirandello, Fenoglio, Calvino, Primo Levi… insomma ne abbiamo avuti tantissimi di scrittori di racconti, a me sembra che invece nella letteratura italiana ci sia molto questa tensione verso la brevità, non abbiamo mai avuto un romanzone ottocentesco da cinquecento pagine.
Cosa ne pensi della piccola editoria e se qualcuno ti proponesse di pubblicare con una grande casa editrice, lo faresti?
L’unico vantaggio di pubblicare con una grande casa editrice sarebbe l’aspetto economico, nel senso che più conosco piccoli editori e intensifico i rapporti con Minimum Fax, più mi rendo conto che il lavoro dell’editore debba essere necessariamente molto diverso da chi lavora in una azienda in cui pubblichi 20 o trenta libri all’anno, li lanci tutti, li dimentichi tutti. Io ho questa esperienza di un editore appassionato che lavora sul mio libro come se per lui fosse il capolavoro dell’anno, quindi mi sento coccolatissimo e questa scelta si sposa anche con quella di andare in giro per le librerie indipendenti, che curano molto la presentazione. Un piccolo libraio coinvolge i lettori, li chiama ad uno ad uno, li invita. E poi certe cose ti fanno arrabbiare come quando esce un libro di uno scrittore italiano per una grande casa editrice, ed ha subito una forte eco mediatica; io magari non sarò mai finalista ad un premio prestigioso con la mia casa editrice, ma va bene così, queste sono le cose che io accetto e mi sta benissimo pagare questo prezzo per la gioia che mi dà pubblicare con loro.