In una fredda notte italiana e in una calda serata statunitense, si è deciso il futuro di un paese. La rielezione di Barack Obama, al suo secondo mandato, come presidente degli Stati Uniti, ha portato, non si sa bene perché, un vento di speranza, che ha accarezzato milioni di persone, in tutto il mondo.
Nel primo discorso, post elezione, Obama, ancora una volta, ringraziando i propri elettori, si pone come stipulatore di un contratto con il proprio paese:
«Ma nonostante le nostre differenza, molto di noi condividono certe speranze per il futuro dell’America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un paese dove abbiano accesso alle migliori scuole e all’insegnamento dei migliori docenti. Un paese che porti avanti la propria leadership nella tecnologia, e nell’innovazione e nelle scoperte, con tutto il lavoro e le possibilità di impiego che ne conseguono.
Vogliamo che i nostri figli vivano un America che non è oberata dai debiti, che non è indebolita dalle disuguaglianze, che non è minacciata dal potere distruttivo del riscaldamento globale. Vogliamo cedere ad altri un paese sicuro e rispettato e ammirato nel mondo, una nazione difesa dall’esercito più forte della terra e dalle truppe migliori che questo mondo abbia conosciuto. Ma anche un paese che si muova con sicurezza oltre questi tempi di guerra, per arrivare a una pace costruita sulla promessa di libertà e dignità per ogni uomo».
Parole ispiratrici, parole speranzose, parole ferme e forti. Parole che da ore risuonano nella mente degli americani, e non solo. Quella dell’America è una storia politica troppo complicata da analizzare in un momento, così breve e conciso, come quello della crisi economica mondiale che stiamo attraversando. Eppure le sue radici sono la chiave per capire perché oggi, il resto del mondo pende dalle parole di un uomo che ha ispirato sogni e speranze, spesso deludendo le aspettative di chi aveva sperato in un cambiamento sociale più che politico.
Le differenze culturali sono le fondamenta del popolo americano, eppure da sempre questi ultimi ne hanno combattuto l’evoluzione, contrastando, spesso con la violenza, qualunque tipo di valore, credo o costume diverso dal proprio. Le armi, tanto care ad ogni presidente succedutosi alla Casa Bianca, sono un valore, così come i vocaboli ad esse connessi, esercito, guerra, potenza, forza. Il paroliere politico statunitense è ristretto e cupo; eppure su questi elementi si è costruito un paese, con una storia fatta di corsi e ricorsi, valori forzati e manie di grandezza.
Barack Obama non è il salvatore della patria, né del mondo. Ma noi tutti vogliamo credere che sia così, perché non riusciamo a vedere oltre il sogno di ripresa dalla crisi, quello che la potenza di un paese ha cambiato nella storia di migliaia di popoli. Che è costata morte, libertà e denaro.
Chi conquista potere col sangue, continuerà a credere di poterlo fare.
Walt Whitman, nel canto Riconciliazione, recita: Perché è morto il mio nemico, è morto un uomo divino come me / E io lo guardo, giace pallido e immoto nella bara – mi avvicino, / Mi curvo e sfioro con le labbra il suo pallido viso nella bara.
Se hai in pugno l’economia, hai in pugno la politica. E questo, chiunque abbia le basi di economia politica, lo sa. Mercati e parole. Hanno imparato a vendere anche queste ultime. Ma se i mercati si sciolgono e le forza si spostano altrove, perché devo festeggiare? Io proprio non ho voglia.