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Un bicchiere di dolore

Vorrei non essere qui a tenere il suo polso freddo. Vorrei non incrociare quel confuso smarrimento da letto d’ospedale nei suoi occhi che solo chiacchiere di lavoro per un attimo accendono. Vorrei che mio padre vincesse i dolori che gli piegano il volto verso il petto e che gli stringono come artigli la schiena. Vorrei per un attimo saperlo in una delle sue interminabili assemblee, seduto a scrivere un verbale, e a parlare di millesimi, condotte, ascensori. E invece è in stanza, qui, che lascia il cuore libero di battergli violento in petto,  mentre le gocce gli scendono nel serpente della flebo. Vorrei solo sapere cos’ha, cosa gli impedisce di mangiare e rialzarsi, cosa raccontano i suoi silenzi e gli imbarazzi dei medici. Vorrei dargli salute, non solo calore, cambiare il gomitolo del destino che l’ha avvolto come un gatto maldestro. Vorrei che i puntini di barba che gli sono cresciuti fossero una scelta orgogliosa, e non tre giorni passatigli sul volto. Vorrei sentirlo urlare come quando rincorreva con la voce i ladri di mimose e non sentirgli la voce inciampare tra i denti. Vorrei che il latte caldo che prende qualche sera per scaldarsi il petto ossuto e la canottiera blu che non vuole togliersi di dosso nel solito ostinato pudore, diventassero un bicchiere di vino. Un vino chiaro come certe lacrime improvvise e autentico come l’amore più lungo. Un vino che sappia di mela verde e di sole, e che sappia infondere fiducia, calore, pace, alle ossa e ai muscoli in sofferenza. Un vino che bevesse facendo magari rumore in un bicchiere vecchio da cucina, e non in un calice stretto da aperitivo, accompagnando uno spaghetto sincero con due pomodori freschi olio e basilico. Che coppia, sarebbe: il Pinot, fine, secco ma gentile, trasparente come la verità e frizzantino e impertinente come un’infermiera giovane; e papà, dal riso forte di pochi denti, tortuoso e menzognero come un bambino, serio e giocoso come un malato che non vuole esserlo. E invece no. Non è, e chissà se sarà mai. Per ora il Pinot è acqua resa calda dall’afa di agosto, nella luce buia di questo monitor, tra i tasti neri come pece pensata che fluisce amara fuori di me. Se pure ne bevessi, lo vedrei torbido e amaro, il Valdadige, e sarebbe solo un bicchiere di dolore in più. Perché il vino si beve insieme, e io per farlo aspetto che mio padre torni.