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“Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari

Immaginate di camminare di notte, da soli, immaginate di sentire un calpestio alle vostre spalle, il  suono di passi non umani, un’orrida bestia vi sta seguendo, l’avvertite distintamente dietro di voi e un unico sentimento a quel punto vi pervaderà: l’angoscia. Questo è l’angoscia, un sentimento, un sussurro, un fiato freddo che ti arriva all’orecchio e ti gela il sangue: un’atmosfera.

Impazzano tra le pagine dei libri, negli schermi televisivi, al cinema, ovunque, vampiri e affini. Grondano sangue e scene truculente che non lasciano alcuno spazio all’immaginazione, ingenerano paura e disgusto in modo banale e prevedibile, senza coinvolgere altro che non siano vista e udito, una sensazione passeggera che finisce col terminare della scena. Come insegna una gloriosa tradizione non è questo modo di fare letteratura, se così può dirsi, a lasciare una traccia di sé in chi legge, come un brivido che s’arrampica sotto pelle per poi insidiarsi e rimanere lì. Sono piuttosto libri come “Lo strano caso di Dr Jekyll e Mr Hyde” di Robert Stevenson, o Frankenstein di Mary Shelley, quelli che restano, perché scavano nella parte oscura dell’uomo; la bestia, il mostro, è occasione per sondare le nere profondità dell’essere umano, non il contrario, non un soprannaturale sbiadito, pallido surrogato dei libri di cui sopra, che sfruttano l’impatto ovvio del racconto di sangue e di budella, invece di prodursi nello sforzo di divenire immortali come gli esseri di cui raccontano.

In “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari, di nuovo in libreria quest’anno edito dalla Cavallo di ferro, sono presenti ambedue gli afflati: quello d’una lunga esistenza del testo e quello d’una ricerca interiore, poiché la bestia non si incontra per caso, esiste e vive dentro di noi. L’oscurità alberga in questo caso nell’animo di un giovane dotto, un poeta, un filologo. Agitato e inquieto, Leopardi sente la bestia che gli si agita nelle viscere, dentro piuttosto che fuori. Il quattordicenne Tardegardo Giacomo, combattuto tra la ricerca del Vero e l’importanza che la poesia lo riveli e le menzogne che invece rintraccia negli scritti degli antichi, privi della ricerca empirica verso il Naturale, vive un primo conflitto interiore, del tutto simile all’altro che subisce al vedere apparire la luna…

Una spiegazione affascinante e fantasiosa all’interesse eccezionale di Leopardi per la luna, un tocco che ha la scintilla d’un idea geniale per la sua semplice sfumatura ironica, dove per ironia si intenda un filtro diverso attraverso cui guardare la realtà.

Nella forma d’un diario scritto dal fratello di Giacomo, Carlo Orazio, la brevissima storia mi impedisce di proseguire nel raccontare una trama di cui ho rivelato fin troppo; il linguaggio arcaico nella volontà dello scrittore finisce per paradosso per essere attuale, poiché non è antico nel modo, ma solo nella forma. Forma che è frutto d’una ricerca talmente accurata da spingersi al punto di avere due livelli linguistici di cui uno è posteriore all’altro:  l’uso della “u” al posto della “v”, ad esempio, ricorre solo quando la narrazione fa dei passi indietro nel tempo, e la lettura ne pare accresciuta di un ancora più pregnante significato. Il tormento di Carlo Orazio che vede il fratello disperato, scritto in una lingua antica eppure con un registro appropriato ad un ragazzo, segnala come Mari sia riuscito a rendere spontanea e scorrevole una scrittura studiata con l’arte d’un cesellatore.

Si legge in un baleno questo libro, ma poi resta a lungo impresso nella memoria. È un immergersi elegante nel passato, come se si assistesse ad una competizione di nuoto sincronizzato in cui storia, immaginazione, angoscia, passato e presente dimenassero forte le gambe sott’acqua per tenersi a galla e al fortunato spettatore fosse offerta solo la meraviglia dei delicati movimenti di quel che dall’acqua emerge.