Gesù la vita è desolata, come fa un uomo a vivere figuriamoci a lavorare -dorme e si sogna dall’altra parte- ed è lì che il tuo Lupo è dieci volte peggiore di quanto creda il paparino – e come, guarda, mi ero interrotto- come fa un uomo a mentire e a dire stronzate quando ha l’oro in bocca”.
Lo si immagina facilmente, sigaretta che pende lasciva da un lato della bocca, occhi gonfi e barba incolta, mentre la mano si muove frenetica sul taccuino, guidata da un’energia extra-corporea.
Perché Jack Kerouac non lo si può immaginare altrimenti, se non casualmente impegnato a scardinare un linguaggio che gli va stretto, per crearne uno che calzi a pennello con la rivoluzione della sua mente.
Così ha dato vita alla Beat Generation, così ha sconvolto la sua generazione.
Sta nel suo personaggio, alzarsi una mattina, con il sapore del sogno sulle labbra, e ancora avvolto dalla mente inconscia, la manas, buttare giù sul taccuino ogni particolare di quell’avventura che sente di aver vissuto in una dimensione parallela, prima che il ricordo si trasformi in una nebbia confusa, e si confonda nelle regole della realtà.
Così nasce “Book of Dreams”, “il più facile da scrivere”, come lui stesso confessa.
È facile perché nell’inconscio non esistono bene e male, non ci sono limiti, perché le situazioni fluiscono senza filtri, senza pudori, e i personaggi si rincorrono nelle avventure più bizzarre.
I sogni sono “visioni che accomunano il mondo”, non banali “irrealtà” da relegare in un angolo della mente per provarne vergogna il mattino seguente.
Il viaggio di Kerouac è sbalorditivo, “allucinante” nel senso più profondo del termine.
Le sue visioni abbracciano personaggi di “On the Road” e i “Sotterranei” (in una tabella, nella prefazione, troviamo una vera e propria legenda dei nomi), amici che svaniscono e riappaiono, a volte per suggerire emozioni nascoste, a volte per riportare alla mente luoghi lontani.
E poi c’è la madre, la donna con cui, a trent’anni, convive, in attesa di una risposta dagli editori di “On the Road” (un precursore degli “sfigati” direbbe qualcuno), e il rapporto contrastato tra frustrazione e colpa che riaffiora nelle forme diverse che la “memére”, così la chiamava, assume nei suoi sogni.
Lo si ritrova parlare con un gatto in francese, osservare il padre pur essendo cosciente della sua morte, danzare oscenamente con delle amazzoni. Folle come in uno dei suoi viaggi, si ha l’impressione che stavolta la strada porti dritta in quel purgatorio senza senso che è la mente dell’autore.
Kerouac non è solo originale, è fresco, disarmante, creativo, e un sacco di altri aggettivi che descrivono forse l’ultimo, di una generazione di scrittori che ha tentato di ribaltare la prospettiva proiettandola nel futuro.
L’idea di trasporre i sogni in letteratura, senza rimaneggiarli, è entusiasmante, rivoluziona la parola e il pensiero.
Si ha un desiderio quasi viscerale di nuove ribellioni, che non si esauriscano come deboli micce in una piazza, ma che si estendano come un fuoco passando per la frase, per il pensiero.
Non basta una versione cinematografica per riaccendere la curiosità nel futuro.
Nel frattempo, Kerouac è un’ottima compagnia.