Il 3 luglio del 1962 l’Algeria proclamò la sua indipendenza e a cinquanta anni da questo avvenimento lo scrittore francese Jerome Ferrari propone questo difficile tema nelle pagine del suo romanzo, “ Dove ho lasciato l’anima”. Fa riaffiorare il ricordo di una guerra da molti già dimenticata ma che nelle vittime ha impresso una cicatrice perenne. Una guerra lenta, devastante e logorante che ha seminato solo morti sulla sua scia. Proprio qui conosciamo i due protagonisti, il capitano Degorce e il luogotenente Andreani, “fratelli d’armi, dopo la disfatta di Diên Biên Phu”. Degorce sopravvissuto ai campi vietnamiti, al nazismo e alla prigionia in Indocina, è un uomo stimato e rispettato dai suoi subalterni. A questi due “eroi di guerra” viene assegnato l’arduo compito di sradicare, anche con la violenza, la minaccia del terrorismo. La sezione di Andreani, davanti agli occhi sconcertati e disperati del capitano, “applicheranno con ferocia la tortura” ai prigionieri dell’ANL (Armata di Liberazione Nazionale). Uso di elettrodi, bende poste sul volto e poi intrise d’acqua, donne nude e umiliate, uomini malmenati e feriti, questa è l’immagine aspra e forte che Ferrari ci illustra. Un uomo, come Degorce, sopravvissuto alla infamie della tortura quando venne fatto prigioniero, si trasforma ora nel carnefice. Come è possibile? Come si può andare contro i propri principi per seguire un ordine “dall’alto”? Come ci si può perdonare e dove bisogna cercare la salvezza per ciò che si è brutalmente compiuto? È possibile dimenticare?
“La memoria è senza pietà”
Le pagine di Ferrari sollevano nel lettore queste domande. Un libro intenso e emozionante che cerca di individuare una giusta morale, un valore etico o forse una più banale soluzione alle oscenità che spesso l’uomo compie. I protagonisti sono tutte figure importanti all’interno della loro sezione militare ma al di fuori sono persone “tragiche” e sottomesse. Non prendono decisioni autonomamente, non riflettono in base ai loro principi, ma obbediscono sempre ad ordini superiori. E dietro a questi si nascondono, cercando di non interrogarsi su questa violenza, diventando macchine indifferenti e fredde, autrici di torture impensabili. Un libro che spinge il lettore a viaggiare fino ai significati più reconditi di Morale, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il risultato più importante ottenuto dalla sezione di Andreani è la cattura di Tahar, uno dei massimi esponenti dell’ANL. Degorce instaura con il prigioniero un rapporto che lo porterà a interrogarsi e ad autoanalizzarsi. Davanti a un uomo, catturato, imprigionato, privato dei propri diritti e della propria libertà, e che nonostante tutto lo fissa con sguardo di sfida, il capitano non può che provare una sorta di ammirazione. Quello stesso rispetto che Andreani non comprende. Perché rispettare un uomo come Tahar che “ ha ordinato la morte di civili innocenti e armato la mano dei loro assassini, a più riprese, un uomo che ha seminato la morte e il terrore e che sembra tranquillo e leggero, come se tutto il sangue versato non avesse importanza maggiore di un temporale spazzato via dal vento”? Eppure il colloquio con Tahar porta il capitano a riflettere sull’intera faccenda. Vedremo un uomo dilaniato dalla sua vita, un uomo ritenuto un eroe in patria ma che tale non si sente; un uomo che a fatica si riconosce allo specchio e che convive perennemente con un conflitto interiore che lo distrugge; un capitano che prova disgusto per i soldati della sua sezione che torturano una prigioniera, ma che d’altronde eseguono ordini. Quegli stessi ordini e comandi di uccidere, che se pur impartisce, Degorce non vi si riconosce più.
“non sono in pace…”
Dunque esistono guerre giuste o guerre sbagliate? Il fine giustifica il mezzo?
Neville Chamberlain disse:” In guerra,qualunque parte possa vantarsi di aver vinto, non ci sono vincitori, tutti sono perdenti”. E certamente in questo libro non c’è differenza tra Degorce e Tahar o tra vinti e vincitori, perché tutti sono, prima di tutto prigionieri di se stessi.