Mi capita spesso di sognare mia sorella che se ne è andata più di dieci anni fa. E non la vedo con la faccia gonfia e la gola bucata che mi facevano disperare le ultime volte che l’ho visitata in ospedale. Il suo viso è sereno e integro; gli occhi sono limpidi, i capelli le scivolano lunghi e lisci sulle spalle. Ha le gambe snelle e robuste e porta ai piedi le scarpe da tennis rosse di quando era ragazza e camminava spedita incontro al futuro.
Dacia Maraini pubblica nel 2011 il suo lavoro ” La grande festa” dove racconta in prima persona l’esperienza con i morti, mescolando tra loro nel racconto episodi di vita privata e pubblica, citando tra l’altro grandi nomi della letteratura.
Esistono due mondi, quello dei vivi e quello dei morti; il confine tra i due è labile, al punto che, se uno crede, può addirittura sentire vicino chi non c’è più, immaginarlo, parlarci. La Maraini invece sogna e nei suoi sogni rivede la sorella, morta da tanto, rivede Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, il primo con un cappellaccio di tela calcato in testa, l’altro invece con dei calzoncini bianchi e una camicia verde. C’è qualcosa da dire che non è stato ancora detto quando i morti decidono di palesarsi in qualche modo e di parlare, nei loro abiti eleganti, con voce lieve e serena dando vita a dialoghi pacati ma pronti a scomparire alla prima avvisaglia di arroganza da parte dei loro interlocutori vivi. Ci sono delle regole da seguire nell’altro mondo, ci vuole rispetto e devozione, ci vuole fede… La Maraini non crede all’Inferno e al Paradiso, non almeno alle descrizioni dantesche; lei i morti li vede più vicini, come se vivessero in capanne, realtà parallele e a noi familiari; come se amassero sostare vicino ai fiumi, perché lì, traghettati dalla corrente, possono lasciarsi andare a se stessi, alle loro essenze vedove del corpo.
“La grande festa” è una conversazione: la scrittrice è lì, quasi distesa con lo sguardo perso nel vuoto a lasciare che i suoi pensieri vaghino e che i suoi ricordi tornino alla mente; i ricordi, l’anello che lega chi c’è da chi non c’è più, con una forza più feroce di qualsiasi azione fisica reale. Parla di se’ la Maraini, parla del padre Fosco e della sorella Yuki, dell’amico Alberto, di Maria(Callas) che, come durante il viaggio a Mali, continua a ripeterle “Credi che mi ami?”, riferita a Pasolini, da sempre di lui innamorata ma ricambiata con un trasporto amoroso platonico, viste anche le tendenze sessuali del poeta; di Giuseppe Moretti, l’uomo che stavolta, era proprio la Maraini ad amare.
Il titolo del libro può ingannare : la grande festa e poi i morti. Non c’è festa, non come il lettore può pensare. Ma come la messa è un modo per dare l’addio a chi va via, la Maraini da il suo singolare e poetico addio ai suoi cari; certo, sostituisce i salmi a dissertazioni filosofiche, approfondisce l’agghiacciante abitudine di seppellire subito il corpo in Occidente, tenendo la sorella come guida, come se fosse stata proprio lei a farla entrare in questa sorta di necropoli.
Invecchiando il cuore si riempe di morti
Sarà pur vero ma il pensare che si può incontrarli, lì, vicino a quel fiume, allevia la sofferenza. E seppure il tempo, la malattia e la sorte hanno portato via le persone care, la Maraini ci rammenta che c’è un modo per tenerli sempre in vita, il ricordo. Quello non muore mai.
Ci saranno angeli? Ci saranno santi, martiri, divinità, si vede l’ombra di un dio potente e punitivo? Forse no. Forse sarà la voce della poesia a tenere in movimento le menti.