Concepito come un monumento funebre a una ragazza morta di leucemia a diciannove anni, I sonetti a Orfeo costituiscono l’apice della poesia di Rilke. Wera Ouckama Knoop era una creatura orfica per la sua giovinezza, per la sua bellezza, per la morte precoce ed insensata. E soprattutto era una ballerina. Rilke la conobbe bambina e più volte la vide danzare. La sua danza trasformava la caducità del mondo in movimento, tracciando confini e forme di grazia e bellezza, prima di svanire nell’oblio.
I Sonetti introducono la figura mitica di Orfeo che, con il canto e la lira, muove alberi, rocce e animali per indurli a deporre la violenza e abbandonarsi all’incanto della melodia. Le donne di Tracia, rese folli e selvagge dal suo lungo rifiuto all’amore, lo uccidono; le Menadi smembrano il suo corpo ma la sua voce penetra nella natura in lutto, mentre il suo capo e la lira vengono accolti dal fiume Ebro.
Orfeo è un vate, un poeta, un narratore di miti, il suo pensiero non può essere afferrato perché concepito nel racconto. L’oggetto del canto di Orfeo è Dioniso, dio della trasformazione e di tutte le contraddizioni, metà Dio e metà animale, e il suo sapere può essere colto solo attraverso il rito misterico. Raccontando le passioni di Dioniso, Orfeo introduce la conoscenza suprema. Suonando la lira Egli è al contempo manifestazione diretta di Apollo. La poesia orfica, però, non può andare oltre il mistero di Dioniso, ma conferirgli un volto, una storia, un’espressione. La sua arte non è fredda e manieristica come potrebbe sembrare, è invece l’unico mezzo inventato dai greci per dare un volto alla contraddizione e al caos, al paradosso e alla polarità, alle similitudini e all’inganno.
Orfeo è prima di tutto apparenza, ma anche espressione dell’indicibile, del divino e del misterico. Un tratto tipico della mitologia orfica è senza dubbio quello dello specchio, simbolo dell’illusione e al contempo di conoscenza. Lo specchio restituisce sempre un’immagine ingannevole dell’uomo; la conoscenza umana non è altro che un ridurre le cose a un’immagine speculata, proprio come il riflesso di uno specchio, e ciò che vediamo, sentiamo o in sostanza percepiamo è tale riflesso. Al di là dello specchio vi è il mistero dionisiaco, quindi l’impossibilità di scorgere veramente il mondo. Ci muoviamo come se un Narciso, guardando il proprio volto nello specchio di un lago, si perdesse non nel riflesso di sé, ma delle cose.
Guardare le cose significa viverle attraverso una descrizione fenomenologica, quindi richiamare alla propria attenzione le categorie di spazio, forma, volume e colore. Ascoltarle, invece, presuppone una voce, cioè l’equivalente acustico della forma. La voce è il primo indizio, e il più necessario di tutti, della verità delle cose. Tradurre il profilo in suono, una linea in melodia e viceversa. Immaginare la possibile voce delle cose, segreta, mai palesata, a differenza delle forme o dei colori, ma più vicina all’essere stesso della cosa, alla sua essenza. Alla sua Verità.
La parola del poeta è lo strumento che, anziché sovrapporre semplicemente l’oggetto all’occhio, la forma alla percezione visiva, entra nei solchi, nelle linee che lo delimitano, le percorre e le decostruisce per estrarne un suono, una voce che non tradisca l’essenza della cosa. La parola del poeta non accarezza ma cozza, non leviga ma penetra, smembra e ricuce per poi smembrare nuovamente.
L’equilibrio per Rilke è là dove la Musica e la Linea rivelano la loro corrispondenza attraverso la parola poetica, mezzo che si incanala negli strati più profondi dell’Essere. L’arte di Orfeo va là dove tutto sembra avere un ordine e un senso. Anche al di là della Morte, lì dove giace tesa e immacolata il corpo di una giovane ballerina, consegnandola all’immortalità.