Sono anni tormentati quelli che seguono alla congiura dei Pazzi, organizzata nel 1478 con l’obiettivo di stroncare il potere dei Medici a Firenze. La sommossa si conclude con l’uccisione di Giuliano de’ Medici e il ferimento di Lorenzo il Magnifico, scampato alla morte grazie alla propria destrezza e all’ausilio di Angelo Poliziano, l’intellettuale di certo più prestigioso della fiorente corte medicea.
Sul finire dell’anno seguente, tuttavia, un dissidio dalle cause non ancora chiarite porta all’allontanamento del Poliziano dai Medici e da Firenze. Il poeta umanista soggiorna a Bologna, Padova e Venezia, prima di giungere – nella primavera del 1480 – a Mantova, sotto la protezione del cardinale Francesco Gonzaga.
Sono questi i presupposti storici e biografici che incorniciano la composizione della Favola (o Fabula) d’Orfeo, spettacolo drammatico e realizzato in vista di una rappresentazione scenica alla corte di Mantova. L’opera costituisce – di fatto – il primo esempio di una nuova letteratura drammatica di argomento profano (anche se non mancano spunti tipici della rappresentazione sacra) che avrebbe conosciuto una rapida fortuna, soprattutto nelle corti dell’Italia settentrionale.
Silenzio. Udite. E’ fu già un pastore
figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo.
Costui amò con sì sfrenato ardore
Euridice, che moglie fu di Orfeo,
che seguendola un giorno per amore
fu cagion del suo caso acerbo e reo:
perché, fuggendo lei vicina all’acque,
una biscia la punse; e morta giacque.
Comincia così l’opera, con la presentazione dell’argomento fatta da Mercurio (nelle rappresentazioni sacre essa spettava invece all’angelo). Sul mito classico di Orfeo ed Euridice, caro a tutta la cultura umanistica e in particolare al neoplatonismo fiorentino, il Poliziano non innesta sostanziali novità. La vicenda porta così in primo piano la morte di Euridice – vittima del morso letale di un serpente in cui la donna si imbatte per sfuggire alle insidie del pastore Aristeo – il dolore di Orfeo e la sua discesa agli Inferi, dove riesce ad ottenere la liberazione dell’amata, a patto che non si volti a guardarla prima di aver raggiunto il mondo dei vivi. Il mancato rispetto, da parte del cantore, di questa condizione – straordinario exemplum di curiositas, desiderio e debolezza del genere umano – comporta il ritono definitivo di Euridice nell’Ade. Orfeo, disperato, si ripromette di volgere il proprio amore solo ai fanciulli, non potendo amare altra donna. Ma in agguato subentrano le Baccanti che, adirate da ciò, lacerano in mille pezzi il corpo di Orfeo e intonano un canto carnascialesco in onore di Bacco, su cui si chiude la rappresentazione.
Come anche nelle rappresentazione sacre, la Favola d’Orfeo non possiede un reale movimento drammatico. Scritta in un lasso di tempo brevissimo (un paio di giorni!) in ottave, l’operetta di Angelo Poliziano è un succedersi di scene dall’impianto abbastanza semplice: momenti idillici, pastorali, comici e realistici si alternano fino a formare un intreccio vigoroso, che scorre tuttavia con rapidità.
Il sogno umanistico di equilibrio tra bellezza, poesia e storia sembra trovare un attimo di incertezza nello scatenamento dionisiaco delle Baccanti, trionfo di quelle forze irrazionali che sembrano costituire una minaccia per l’impalcatura razionale dell’Umanesimo.
La Fabula, molto apprezzata dai contemporanei, ha poi dovuto subire le censure della Controriforma soprattutto sul tema finale dell’amore pederasta, per poi conoscere una costante fortuna e un’ottima considerazione all’interno del corpus delle opere di uno dei più grandi cultori della forma che l’Umanesimo abbia partorito.