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“Un medico di campagna” di Franz Kafka

“Ero in grande imbarazzo; c’era un viaggio urgente da fare: un malato grave mi attendeva in un villaggio distante dieci miglia; un fitto nevischio riempiva tutto lo spazio esistente tra me e lui; avevo una carrozza, leggera, dalle ruote grandi, proprio come ci voleva per le nostre strade di campagna; avvolto nella pelliccia, con la borsa degli strumenti in mano, me ne stavo già nel cortile pronto per la partenza; il cavallo però mancava, proprio il cavallo.”

Comincia in questo modo il racconto di Franz Kafka “Un medico di campagna”, titolo che fa da portavoce all’intera parte omonima di 14 racconti pubblicata nel 1919,  inserita nella raccolta “La metamorfosi e altri racconti” e dedicata al padre. Il protagonista è un medico di uno sperduto paesino di campagna che, in pieno inverno, si trova costretto ad andare in un villaggio vicino il suo per soccorrere un ammalato. Il suo cavallo è però morto e nonostante le ricerche della sua giovane domestica, Rosa, non riesce a trovarne un altro. Nessuno l’aiuta. Nessuno tranne un losco individuo che sembra comparire dal nulla e che offre al dottore due cavalli. Quindi può partire ma Rosa deve rimanere a casa, con quell’inaspettato stalliere che ha tutto l’aria di uno che vuole approfittare della situazione e della donna. Alla richiesta del medico di partire con lui lo stalliere rifiuta e lanciando una sorta di grido fa in modo che i cavalli comincino a correre trascinando la carrozza alla quale erano legati e il medico che già vi era salito.

Da questo momento comincia la vera storia che, in sintonia con la scrittura kafkiana, rende di difficile comprensione il racconto. Un atmosfera surreale si insinua nelle pagine del racconto: il medico si ritrova in un lasso di tempo brevissimo dal suo paziente ma è distratto, preoccupato; ha lasciato Rosa nelle mani di un aggressore, lei, l’unica al mondo a prendersi cura di lui, lei docile e disponibile, ora è in quella casa da sola, con le luci spente nella speranza di sfuggire ad una violenza. Il senso di colpa del medico è forte; il suo mestiere lo porta in giro, in villaggi, in case di persone che di lui non si curano… “Non è che un medico, non è che un medico” sembra che solo questa sia la considerazione che gli altri hanno di lui, come se essere un medico non includesse anche essere una persona…

Bisogna leggere più volte questo racconto per cogliere il vero senso di Kafka: il medico che offre la sua professione, che viene “usato”, aiuta senza mai essere aiutato e anzi, sacrifica Rosa, la sua adorata Rosa, per raggiungere il malato di turno. Non è tanto importante concentrarsi sul modo di vivere in una campagna, sull’affrontare il freddo inverno ma sui rapporti interpersonali e sul ruolo nella società, da sempre al centro degli interessi dello scrittore boemo. Il male dell’uomo verso l’uomo, il disinteresse dell’altro, la necessità di nascondere i propri sentimenti. Il medico è quel paziente, Rosa è la ferita di quel paziente, Rosa è la ferita del medico. Entrambi in fondo vogliono solo lasciarsi morire….

Sono un impiegato del distretto e faccio il mio dovere fino all’estremo, fin quasi all’eccesso. Pagato male, son generoso e pietoso con i poveri. Ho ancora da provvedere a Rosa, poi avrà ragione il giovane e anch’io voglio morire. Che faccio qui in quest’inverno senza fine?

Vale la pena, al fine di comprendere la psicologia di Kafka, rimandare ad un altro suo racconto, una lettera scritta al padre, destinatario della sua raccolta.