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La bolla di vetro dell’autismo

Negli ultimi sei anni ho studiato perlopiù comunicazione, in maniera più o meno approfondita; ho studiato i suoi aspetti tecnici e pratici, i suoi risvolti sociologici e psicologici, e la sua straordinaria centralità nella vita di tutti gli uomini, da sempre. Per cui, non volendo paragonarmi a signori del calibro di Umberto Eco o Marshall McLuhan, mi sono sempre sentita preparata rispetto ad un argomento sì vasto.
Errore.

Qualche mese fa mi è capitata tra le mani un’intervista, che ho letto con particolare attenzione: il protagonista era un padre, uno qualsiasi, uno come tanti, che parlava di sé e di suo figlio, del loro rapporto, dei loro contrasti, delle sue paure di genitore, e delle sue difficoltà nel comunicare con un giovane ragazzo, ormai non più bambino. Nodo centrale di questa relazione padre-figlio era una malattia: l’autismo.
Ho assimilato parola per parola ogni risposta di questo  padre sofferente, commosso ma sorridente. E ho sentito la necessità di spiegarmi e cercare di capire come un bambino o un adolescente riesca a comunicare in un mondo così poco attento come il nostro, un mondo che si muove a ritmi frenetici e che fatica ad ascoltare chi non alza la voce. Un mondo prettamente occidentale, purtroppo.

Ciò che s’impara quando si studia comunicazione è che la parola è solo uno dei tanti mezzi  che usiamo per relazionarci col mondo. Esistono poi una serie di piccole e grandi sfaccettature che ci permettono, a volte inconsapevolmente, di comunicare. I nostri gesti, il nostro sguardo, il nostro corpo, lo spazio, il nostro abbigliamento, il nostro respiro, il nostro silenzio. Tutto è comunicazione. E pensare di poter veicolare un messaggio solo attraverso la parola è quanto di più sbagliato si possa fare. Le parole sono semplici, è il resto ad essere complesso. E nella mente di un bambino affetto da autismo, purtroppo, anche le parole divengono complicate. Lo diventano nel momento in cui non si riesce a tirarle fuori, nel momento in cui dall’altra parte vi è un interlocutore disposto a comunicare solo con esse.

“Vedo le parole e non riesco a dirle”. Spesso è questo il sentimento che accomuna i bambini autistici. La loro precarietà nel comunicare col mondo li relega in una parte così piccola della mente da far diventare proprio quella parte il mondo stesso. Eppure questo sentirsi imprigionati in una bolla di vetro così delicata, così spessa e totalmente insonorizzata, non impedisce loro di cercare altre vie per comunicare. Quelle non verbali, le più complesse, è vero, ma le uniche che riescono a tirare fuori.

Si è parlato in questi anni di comunicazione facilitata, una tecnica utilizzata per aiutare la comunicazione nei soggetti affetti da autismo: questa si applica attraverso la scrittura a macchina o indicando figure, lettere e parole. Un facilitatore (un insegnante, un membro della famiglia, un amico o un altro partner di comunicazione) aiuta il bambino nello stabilizzare il braccio o nell’isolare il dito indice, ma, soprattutto, fornisce un supporto emotivo. Col tempo questo supporta va scemando, lasciando libera e totale indipendenza al bambino che può autonomamente scrivere. Anche qui però gli studi scientifici non hanno approvato del tutto la tecnica, non avendo avuto miglioramenti tangibili in moltissimi soggetti.
Ma aldilà  del funzionamento della comunicazione in facilitazione, il punto è stato centrato. Scrivere e parlare richiedono uno sforzo muscolare forte, una tensione e una concentrazione fisiche notevoli, che i bambini affetti da autismo faticano ad ottenere.

Gli studi scientifici sulla malattia sono ancora poco chiari, le ricerche sulla sua natura e sulla relativa cura vagano nel silenzio. Un ritardo imperdonabile per un disagio comunicativo irruento e crudele. Ciò che resta è solo la speranza di un rapporto, almeno familiare, che possa aiutare il bambino a non fermarsi, a rapportarsi con l’esterno, senza urlare, senza sentirsi intrappolato in un mondo di cristallo.