Squadra vincente non si cambia e, se a una scrittrice di talento capita di incontrare e innamorarsi di un attore-regista di valore indiscusso, il pubblico assisterà a una lunga serie di partite vinte, anche a tavolino. Se poi questa scrittrice si chiama Margaret Mazzantini, e il di lei consorte è Sergio Castellitto, non c’è gara, anche quando forse dovrebbe esserci. La squadra stavolta ha in cantiere la trasposizione cinematografica di “Venuto al mondo”, vincitore del premio Campiello nel 2009, sugli schermi dall’8 novembre 2012.
È una telefonata ad aprire il libro e a riaprire uno squarcio mai davvero cicatrizzato nell’anima di Gemma, la protagonista. Donna adulta, sposata e con un figlio adolescente di nome Pietro, Gemma viene ricatapultata nel passato da quel trillo del telefono, nell’istante stesso in cui sente la voce dell’amico all’altro capo. Gojko, questo il nome del vecchio amico, un poeta bosniaco, vuole invitarla a Sarajevo per assistere a una mostra fotografica in cui saranno esposte delle opere di Diego, suo passato grande amore e padre di suo figlio. Gemma decide di andare, di tornare lì dove aveva conosciuto il “fotografo di pozzanghere”, e dove loro figlio è nato nel 1992, durante uno dei conflitti peggiori che la storia recente ricordi. Quel figlio ribelle che proprio non voleva arrivare, e che è per Gemma un dono ricevuto per vie tortuose e dolorose. Al momento del ritorno in Italia di Gemma, col piccolo fagotto tra le braccia, Diego decise di non rientrare in patria e di lasciare partire i due da soli, senza di lui. In Italia l’incontro con Giuliano, marito attuale di Gemma. E ora quell’invito di Gojko, che ha sposato Aska, una donna che nella vita di Gemma ha un ruolo fondamentale. Una trama che assomiglia a due cerchi che si congiungono a formare un 8, simbolo dell’infinito.
Tanti i temi trattati: la guerra, l’amore in molte sue forme, il ricordo, la maternità. La Mazzantini conferma ancora una volta le due doti, prima fra tutte la sua capacità di districarsi tra le vicende complesse che racconta senza lasciare che il lettore si confonda e perda il filo della narrazione. Tuttavia il libro è lungo senza essere sempre denso, la quantità di argomenti consente che solo alcuni di essi siano affrontati mentre altri risultano solo sfiorati. Talvolta perciò si ha l’impressione che la storia sia tirata per le lunghe, che se anche si saltassero un po’ di pagine non cambierebbe molto. Per quanto toccante, e stilisticamente impeccabile, il solo lato emotivo e la bravura innegabile dell’autrice, che dosa ad arte pagine forti a pagine delicatissime, non sembrano giustificare la prolissità del libro, che appare a tratti davvero lento e ripetitivo.
Che la Mazzantini primeggi in quanto a descrizioni e capacità narrative è fuor di dubbio, ma che questo sia un capolavoro, come spesso si è detto, non mi sento affatto di sottoscriverlo. Non è sufficiente che un libro commuova perché meriti un tale appellativo.
L’indugiare in questo dramma ancora e ancora, per fiumi di pagine, lascia una strana sensazione, come quella che si prova mangiando troppo semifreddo: dolce e buono ai primi assaggi, pesante e indigeribile dopo.
Non ci resta che aspettare il film, che speriamo non ci resti sullo stomaco.