Euripide ha segnato con un’impronta indelebile la storia del dramma antico.
In quasi cinquant’anni di attività (un tempo immenso per gli standard di vita dei greci!), il poeta di Atene compone 22 o 23 tetralogie… Quindi 88 o 92 drammi. Tra questi, 18 tragedie – alcune delle quali costituiscono degli autentici capolavori – sono sopravvissute per intero.
L’Alcesti, andato per la prima volta in scena nel lontano 438 a. C., è il più antico dramma euripideo a noi pervenuto. Faceva parte di una tetralogia composta da Cretesi, Alcmeone a Psofide e Telefo. Di prassi, dopo tre tragedie, la tetralogia si concludeva con un dramma satiresco: e qui si muove il primo terreno di confronto tra filologi e critici, che su quest’opera di Euripide non si sono davvero risparmiati. In questo caso, infatti, siamo di fronte non ad un dramma satiresco vero e proprio: l’autore, di cui fonti certe ci attestano la scarsa simpatia nutrita per questo genere letterario, decide di fare uno strappo alla regola e di comporre un’opera che assomiglia ad una tragedia a lieto fine, o in ogni modo ad un dramma dai tratti più leggiadri.
L’azione si svolge nella città tessala di Fere, il cui re Admeto vive una situazione del tutto particolare. Su di lui incombe un destino di morte, ma il dio Apollo gli prospetta una lunga vita qualora il regnante trovi una persona disposta a morire al suo posto. I genitori del re, nonostante un’età non certo più giovane, sono troppo attaccati alla vita per poter accettare e rifiutano. Il sacrificio sarà compiuto da Alcesti, moglie di Admeto, che si commiata dai figli e dal marito, il quale le promette di non risposarsi. Dopo un acceso diverbio con il padre, da cui evidentemente si aspettava un comportamento diverso, Admeto vive momenti di confusione, ben presto fugati. Si erge infatti a regista della scena Eracle, il quale – mortificato da un comportamento lascivo in una situazione del genere – parte per una grande impresa: riprendere Alcesti dall’Ade e riportarla alla vita. Vi riesce, e si presenta con una donna velata al cospetto del re affinchè gli rechi conforto: dapprima titubante, Admeto tuttavia decide di alzare il velo alla donna, scoprendo in lei Alcesti. Uniti nuovamente nell’amore, i due rientrano nella reggia.
Si legge questa vicenda e qualche interrogativo sorge spontaneo. È questa la marca tragica dell’opera: Euripide, da sempre spinto da un impulso al dubbio e alla critica dei valori, portatore di uno spirito razionalistico – “apollineo” avrebbe detto Nietzsche – porta lo spettatore ad immedesimarsi nella vita dei suoi personaggi. Il paradigma su cui si costruisce la tragedia antica è il tormento del dubbio e la riflessione che nasce dal quesito; il primo che si pone è: spettava o no ad Admeto accettare il sacrificio della moglie?
Alcesti, da parte sua, sembra più preoccupata dei figli che da altro: in lei sembra prevalere l’amore di madre più che l’amore per il marito.
Poi c’è il tema del rapporto padre-figlio, rivisitato in chiave completamente nuova: l’amore paterno, il rispetto e la quasi sudditanza del figlio nei confronti del genitore sono qui del tutto assenti. Trionfano l’egoismo e il gretto attaccamento alla vita di un padre che non si vuole sacrificare per il figlio, e in primo piano balza di quest’ultimo una furia del tutto nuova nella letteratura tragica dell’antichità.
Infine lo scioglimento: Admeto, vincolato da una promessa di castità, cede senza neanche pensarci troppo. Solleva il velo di una donna con cui voleva solo giacere, e scopre il volto della moglie. Alcesti sarebbe legittimata a ben altra reazione, eppure il finale è felice, come nelle fiabe tradizionali: i due rientrano nella reggia, e il dramma sembra quasi chiudersi con il più classico dei “e vissero felici e contenti…”
Davanti ai lettori moderni il nucleo tragico conserva i suoi dubbi e spinge ad una riflessione che non conosce tempo: è quella, semplice eppur tremenda, del dare la vita per qualcuno che si ama.