I telai sferragliavano duro, come il treno che aveva portato molti di noi in fabbrica l’altra mattina, proprio come ogni altra alba delle nostre vite.
Come ogni volta ci eravamo divisi, tra quelli più fortunati, ma sempre come noi miserabili, costretti a lavorare a ritmi insopportabili, ma almeno alla luce, e noi, quelli nascosti nel sottopiano, al di sotto della strada e del sole, gente senza possibilità di distinguere il giorno dalla notte, l’autunno dall’estate.
Io che anche quel giorno mi ero chiesto dove andassero i teli filati con tanta fatica, chi trasformasse in tessuti pregiati le stoffe dipinte respirando solventi; io, che immaginavo chi mai potesse confezionare e dove, chi trasportasse e come, il risultato della nostra fatica… ora ancora mi chiedo davanti ai duecento corpi bruciati dei miei amici di ogni giorno, guardando il braccio al collo e le altre fratture, che ho per essere volato dalla finestra mentre tutto intorno era già arso… io non smetto di chiedermi in una bestemmia chi mai venderà la nostra opera, quanto avrà il coraggio di lucrare, cosa poi dirà alle sue clienti dell’altro mondo, che nulla sanno ne’ vogliono sapere dei compagni morti tra i telai di Karachi e degli artigiani delle scarpe di Lahore.
Chi saprà mai delle urla e delle porte chiuse, dei vapori tossici e degli sputi presi, per lavorare di più, per lavorare peggio, come i topi, nella vita e nella morte, regalando tempo e respiri perché qualcuno conti in rupie, in dollari, in euro il suo lusso che è stato, fino a tutto questo fuoco, un pezzo delle nostre vite? Nessuno. Nessuna donna, nessun uomo.
Le sete resteranno per sempre fruscianti, colorate, pulite, almeno quanto quei corpi di morti mischiati ai vivi saranno sulle coscienze pesanti, neri, sporchi, attendendo invano i pompieri e per l’eternità un giudice.