Noi sappiamo che non tutti gli uomini furono creati eguali, nel senso che molta gente vorrebbe farci credere: sappiamo che vi sono persone più intelligenti di altre, più capaci di altre per natura, uomini che riescono a guadagnare più denaro, donne che fanno dolci migliori, individui dotati di qualità negate invece alla maggioranza degli uomini. Ma c’è una cosa, nel nostro paese, di fronte alla quale tutti gli uomini furono davvero creati uguali: un’istituzione umana che fa di un povero l’eguale di Rockefeller, di uno stupido l’eguale di Einstein, e di un’ignorante l’eguale di un rettore di università. Questa istituzione, signori, è il tribunale
Descrivere i temi più scabrosi non è sempre facile. Si può scadere nella retorica, annoiare il lettore con frasi altisonanti che perdono di significato. Questo non è il caso di Harper Lee.
Lo stratagemma di osservare il mondo attraverso gli occhi di una bambina le ha permesso, infatti, di sottolineare il contrasto tra l’innocenza e la corruzione, disegnando, con una chiarezza disarmante, le ombre al limite tra giustizia e colpevolezza, tra adesione alla comunità e libertà di pensiero.
Scout, otto anni, è la voce che ci guida nella cittadina di Maycomb, Alabama, nel 1935.
Con un’acutezza che spesso si rivela ironica, ma mai superficiale, Scout ci introduce nel mondo del suo vicinato, delineandone i tratti più caratteristici, raccontando le storie che si nascondono dietro gli steccati verniciati, i giardini ben rasati e le messe della domenica.
Lei e suo fratello maggiore, Jem, insieme con l’amico Dill, si divertono a giocare in un mondo creato solo per loro, alimentato dalla fantasia sulle leggende della famiglia Radley, e la solitudine del povero Boo.
I racconti di Scout riempono le righe del sapore del vecchio Sud degli Stati Uniti: gli abitanti diffidenti, le inviolabili leggi non scritte, le discendenze familiari che valgono più di qualunque eredità.
Ma soprattutto è nella descrizione del padre, l’avvocato Atticus Finch, che Scout rivela la profondità degli avvenimenti che la circondano.
Astutamente Harper Lee riesce a trasformare un racconto dell’infanzia in una riflessione più ampia. Una donna bianca viene violentata, il servitore nero accusato di stupro pur essendo palesemente innocente.
Quando Atticus decide di difenderlo, la cittadina si rivolta contro di lui, e il Ku-Klux-Klan entra in gioco per ristabilire la supremazia bianca.
Sempre fedele alla prospettiva di Scout, l’autrice mostra le parole spogliate di ogni enfasi: “negrofilo” diviene un’offesa per il disprezzo e l’odio che il termine rappresenta.
Persino nella solitudine della vittima, Miss Mayella, volutamente lasciata nell’ignoranza, riscopriamo un nuovo colore della parola “stupro”, quasi a lasciare intendere che ad essere violato, non sia stato tanto il corpo della ragazza, ma la sua stessa mente.
“To kill a mockingbird” è il titolo originale dell’opera. E’ peccato uccidere un usignolo, perché non ha colpa se non quella di cantare per noi. Non si può sparare contro qualcuno che non può difendersi.
E ad avere il fucile in mano è un’intera cittadina, è il padre di Miss Mayella, sono le comunità protette da codici fondati sulla paura del diverso.
Il linguaggio è verosimile, perfettamente cucito nelle vesti di una bambina di otto anni, ed è questa innocenza che ne risalta la profondità, la tenerezza con cui Scout pone delle domande che inconsciamente si trasmettono nella mente del lettore.
Se Truman Capote non avesse consigliato Harper Lee di dedicarsi alla scrittura, avremmo dovuto privarci di un romanzo sensibile e intelligente.