Per Domenico Rea l’umanità si divideva in tre categorie. Alla prima apparteneva chi si professava comunista, alla seconda chi manifestava tendenze vacanziere e alla terza chi era comunista e vacanziere contemporaneamente. E la sua missione era redimere il genere umano da un simile peccato, dal momento che lui detestava sia i comunisti che i vacanzieri.
Di mattina aveva un percorso obbligato e un elenco di persone da convertire.
A piedi da Posillipo, dove abitava, si spingeva sino a Via dei Mille dove avevo l’ufficio. Passava per il barbiere, il salumiere, il macellaio, il pescivendolo, il giornalaio e a ognuno impartiva una lezione affinché si tenessero a debita distanza dal Partito Comunista e dalla folla che nei fine settimana o nel mese d’agosto intasava le autostrade per raggiungere il facile divertimento.
A me riservava di solito un trattamento speciale (forse perché mi riteneva inguaribilmente incline al peccato).
Bhé, che io fossi di sinistra lo sapevano anche le pietre, e nemmeno tentavo di scansare il sarcasmo di Mimì, diminutivo plebeo di Domenico, anche perché lui s’intendeva di politica come io della lingua araba, ma rifiutavo il marchio di vacanziere, e non perché avessi cose da ridire sulla categoria umana (ognuno ha il diritto di divertirsi come crede), ma semplicemente perché non vero.
Si sedeva sulla solita sedia, sempre la stessa, e, guardandomi fisso, m’interrogava su cosa avessi fatto il giorno primo o quello prima ancora alla ricerca di qualche falla su cui impiantare una tesi accusatoria.
Avevo lavorato, rispondevo un po’ indispettito, e lui scuoteva la testa, incredulo.
Niente, non avevo armi per convincerlo che almeno sul piano delle vacanze seguivo dei canoni un tantino eccentrici… Mimì mi aveva classificato.
Ma Rea non era solo le sue idiosincrasie.
A volte si sedeva sempre sulla solita sedia, mi chiedeva un caffé e lo sorseggiava con aria malinconica.
Questa volta ero io che lo fissavo in attesa che si mettesse a parlare come solo uno scrittore sa fare.
La narrativa russa lo rapiva. Di questo parlava. Dostoevskij, Tolstòj, Gogol’, Cechov, Bulgakov (per citare solo quelli che ricordo) ce li raccontava come se fossero stati amici di lunga data e ce li raccontava come sapeva fare, alternando napoletano e italiano, e poi, dopo un po’, dalle sue espressioni verbali l’italiano si perdeva e restava solo la carnalità del dialetto.
Alla fine per me come per chi in quel momento era in casa editrice quei suoi racconti non potevano commisurarsi in termini di tempo trascorso. Di colpo Rea ci trascinava in un altro mondo, nel suo, affascinandoci con l’enfasi popolare che gli era congeniale. Spesso accadeva che il giorno dopo qualcuno mi diceva di aver ripreso in mano uno degli scrittori citati da Mimì e che, sì, gli appariva diverso.
Rea aveva da poco vinto il premio Strega con Ninfa Plebea. In quel periodo lo vedevo poco perché era in giro per l’Italia a presentare il suo libro. Una mattina me lo rividi in casa editrice. Era contento del successo del libro. Prima di andarsene mi disse che c’erano scrittori e scrittori, qualcuno sfidava l’usura del tempo e qualcuno si perdeva lungo la strada, e mi fece anche un esempio. Bulgakov apparteneva alla prima categoria e lui alla seconda. Mi parve una delle sue solite battute e ci risi su.
Pochi giorni dopo Rea morì, e allora ciò che mi aveva detto non mi parve più una battuta e di averci riso su un po’ me ne pentii.