Edipo Re è il paradigma di tutta la tragedia antica, il simbolo di una cultura millenaria. Nata come tragedia e morta assieme al suo autore, risorge per consegnarsi all’umanità come non solo il capolavoro di Sofocle, ma come mito dei miti, un’opera immortale dal fascino ineguagliabile e con la quale i più grandi drammaturghi si sono misurati.
Edipo diventa Re di Tebe dopo aver liberato la città dalla Sfinge, risolvendo il suo famoso enigma: Qual è l’essere che cammina a volte a due gambe, a volte a tre, a volte a quattro, ed è più debole quando ha più gambe? Solo Edipo seppe rispondere a tale quesito: E’ l’uomo, che da bambino cammina sulle mani e sui piedi, da adulto sulle gambe, e da vecchio appoggiato ad un bastone. La Sfinge, oramai sconfitta, si suicida.
Edipo quindi sposa la regina Giocasta, vedova del Re Laio, ucciso in viaggio da un gruppo di ladri, e diventa Re. Di seguito un altro male, ancora più minaccioso, colpisce la città, un morbo che distrugge ogni essere umano nel paese. L’unica soluzione, a detta dell’oracolo Tiresia, per porre fine alla pestilenza è quella di trovare l’assassino del defunto Re, ed Edipo si assume l’arduo compito di cercarlo. Ma ben presto alcuni indizi lo portano alla tremenda verità: Laio, Re di Tebe e vero padre di Edipo, sapendo che una maledizione voleva che fosse ucciso da suo figlio, aveva ordinato ad un servo di abbandonarlo ancora in fasce sulla cima di un monte, ma egli, impietositosi, appena giunto sulla vetta lo lascia a dei pastori; costoro lo affidano al Re di Corinto che lo alleva proprio come se fosse suo figlio; Edipo, adulto ormai, incrociando sulla strada il carro di Laio, a seguito di una efferata discussione lo uccide, non sapendo egli chi realmente fosse; successivamente ne sposa la vedova, cioè sua madre, che gli darà nel corso degli anni quattro figli. Edipo quindi scopre di essere non solo parricida ma anche di aver commesso l’incesto. La verità condurrà il protagonista al suo tragico epilogo: Giocasta s’impicca, Edipo invece si acceca con la fibbia d’oro di lei. Il seguito verrà raccontato nell’ultima opera di Sofocle, da molti considerata il suo testamento spirituale: Edipo a Colono.
L’incoscienza di Edipo, la sua inconsapevolezza, non è una giustificazione al male che ha commesso: uccide il padre, sposa e fa sesso con la madre, e alla fine si acceca per espiare le proprie colpe. Sofocle crea un mito universale, il paradigma più famoso dell’eterno scontro tra libertà e necessità, tra volontà e destino. Edipo incarna la tragicità assoluta: giunto al potere grazie alla sua arguzia, egli è costretto a scoprire che il suo passato è macchiato da atroci delitti, e si lascia arenare verso qualcosa d’inafferrabile che lo sovrasta, senza che possa minimamente deciderne il corso. Egli è il simbolo della fragilità umana, di un’umanità capace di gesti straordinari ma anche di commettere, in breve tempo, le più abissali depravazioni.
Eticamente l’opera tratta della cecità del fato, e della irriducibilità della condanna. L’aspetto propriamente tragico della vicenda consiste in una sorte che trascende la stessa responsabilità morale dell’agire umano. Ma Edipo non è solo questo, è molto di più. Egli è il simbolo della tragicità del conoscere.
Determinato a scoprire il proprio sé più profondo, la propria identità, rifiutando il rischio che la scoperta della sua natura e del suo passato possa apparirgli come qualcosa di terribile, Edipo prosegue senza timore e senza alcuna reticenza. Egli è il grande eroe dell’intelligenza umana, apologia della conoscenza e della presa di coscienza, di quella razionalità, di natura anche squisitamente filosofica, sempre tesa verso una verità che non evita di affrontare le tenebre dell’inconscio.
Ma di fronte alla verità Edipo decide di accecarsi. Un gesto estremamente significativo che conduce ad un’altra riflessione, ancora più terrificante: il limite, labile, che separa la colpa dal voler indagare fin troppo oltre la natura umana. La soglia c’è, basta solo varcarla, ma la verità sarà così tremenda da risultare inaccettabile.