Cecco Angiolieri era senese ed orgoglioso di esserlo, forse però erano i senesi a non essere orgogliosi di lui.
Nato nella metà nel XIII secolo, era di buona famiglia, forse anche troppa, il nonno infatti fu il banchiere di papa Gregorio IX e si faceva chiamare “Solafìca“, con allusione, evidentemente, al suo stile di vita non proprio esemplare. Ebbene, Cecco mutuò gran parte della sua personalità da quella di nonno: scapestrato e donnaiolo, gli mancava tuttavia proprio una delle qualità migliori del proprio antenato, era infatti un grande scialacquatore, e più volte nei suoi sonetti troviamo riferimenti a discussioni che era solito avere con il padre il quale, ci riferisce Cecco, era troppo solerte e bacchettone, e non gli permetteva di divertirsi con le donne. Ma l’Angiolieri non era solo donne e denaro, molti ne conservano questo ricordo forse perché è il più colorito, tuttavia non bisogna dimenticare che fu uomo di grande attaccamento alla vita e che, sebbene multato per essersi allontanato dal campo di battaglia durante la lotta tra guelfi e ghibellini (facendo parte dei primi), non fece mancare parole durissime nei confronti del Comune di Siena quando, tramite un bando, fu allontanato dalla città, e costretto a vendere persino l’antica vigna di famiglia per poche centinaia di lire.
Oltre a ciò, Cecco era probabilmente grande amico di Dante, come ci risulta da alcuni carteggi. Avevano un umile amico in comune, un ignoto maniscalco; come tutte le grandi amicizie, però, anche questa finì bruscamente forse a causa di un litigio. Dante non lo cita mai nelle sue opere, e questa, sappiamo, suonava come una grave condanna che il poeta riservava ai peggiori nemici, condannandoli all’oblio ancor più che criticandoli. Quando si dice che il miglior disprezzo è la noncuranza, nel caso di Dante forse questa norma popolare vale più di ogni altra.
Le grandi fatiche letterarie dell’Angiolieri sono delle monumentali parodie, cosa faceva il nostro genio? Al pari dei grandi autori di satira odierni, prendeva ciò che di più sacro c’era a quei tempi (nei limiti del possibile) e lo metteva alla berlina con abilità e maestria senza eguali: nascevano le parodie del famigerato Dolce Stil Novo. Ecco quindi che l’amante più angelica, la donna più pura, si trasformavano nella prostituta più laida della città, i lazzi amorosi più innocenti e casti sprofondavano in scambi di ingiurie da bettola, i palazzi nobiliari diventavano lupanari degni del più bieco mercante di schiavi.
La vendetta era compiuta, certo il Nostro non era mai stato uno stinco di santo, e quegli ambienti che raccontava così minuziosamente egli stesso ebbe modo di conoscerli bene, ma una personalità ribelle come la sua non avrebbe mai accettato in silenzio l’esilio.
Come in tutti i grandi concerti, il pubblico vuole che l’artista suoni il proprio cavallo di battaglia, anche se lo si conosce a memoria. Bene, eccolo:
S’i fosse fuoco, arderei ‘l mondo;
s’i fosse vento, lo tempestarei;
s’i fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i fosse Dio, mandereil’ en profondo;
s’i fosse papa, allor serei giocondo,
ché tutti cristiani imbrigarei;
s’i fosse ‘mperator, ben lo farei;
a tutti tagliarei lo capo a tondo.
S’i fosse morte, andarei a mi’ padre;
s’i fosse vita, non starei con lui;
similemente faria da mi’ madre.
Si fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le zoppe e vecchie lasserei altrui.[Si cita qui dall’edizione Marti del 1956]
Cecco Angiolieri, definitosi egli stesso “pungiglion” di Dante, è il sommo padre dei maledetti, il maestro della satira italiana.
* Curiosità *
Il sonetto ha avuto anche una trasposizione musicale ad opera del cantautore genovese Fabrizio De André, nell’album Volume III del 1968; a un differente livello, è citato nella canzone della puntata Il rapimento di Gino nella serie a cartoni animati Gino il Pollo. [fonte Wikipedia]