Costruirsi un mondo inventato in cui rifugiarsi, per dare sfogo alle più sfrenate fantasie. L’abbiamo fatto tutti, da bambini. Ma alcuni continuano anche nell’età adulta. E da quest’immaginazione fervida, che non si spegne e non soccombe allo scorrere del tempo e all’avanzare degli anni, nascono i romanzi.
Chiamatelo timido, disadattato. Ossessivo. Chiamatelo balbuziente, pedofilo. Lewis Carroll resta un maestro della letteratura di inizio Novecento, uno scrittore in grado di conciliare la creazione fantastica con la morale vittoriana, di parlare contemporaneamente (e su molteplici livelli interpretativi) ai bambini e agli adulti, di ammaliare generazioni e generazioni di lettori, conservando un’attualità tuttora fuori discussione.
È un mondo visionario, trasfigurato, metaforico, onirico, quello creato da Lewis Carroll. Non soltanto il paese delle meraviglie che fa da sfondo alle avventure di Alice, ma anche le ambientazioni favolistiche degli scritti minori, in cui si incrociano, in intrecci sublimi, rimandi alla psicopatologia, alla metafisica, alla matematica, alla filosofia e alla cabala.
Nato il 27 gennaio 1832 in una famiglia dell’alta borghesia inglese, anglicana e conservatrice, Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) era un bambino introverso ma precoce. Trascorse i primi anni studiando con un precettore e appassionandosi da subito alla letteratura. A soli sette anni lesse “Il viaggio del pellegrino” di John Bunyan, romanzo allegorico che lo iniziò probabilmente all’amore per il simbolismo.
A dodici anni fu mandato a studiare in un collegio privato, dove si trovò a suo agio nonostante la timidezza. All’epoca aveva già vissuto il trauma della correzione del mancinismo (che gli lasciò in eredità la capacità di scrivere in maniera speculare, come Leonardo Da Vinci), ma la sua croce in società era la balbuzie: un difetto manifestato nell’infanzia e mai più scomparso, che non di rado lo metteva in imbarazzo davanti a un pubblico. Tranne quando si trattava di cantare e recitare, due arti che affinò abbastanza e per le quali si sentiva molto portato. Più tardi, la morte della madre e la scoperta di essere affetto da una forma di epilessia furono altre due circostanze che lo misero a dura prova. Schivo, osservatore, dotato di grande sensibilità estetica e capacità di analisi, sviluppò un notevole gusto estetico: cresciuto nell’humus culturale dell’Inghilterra vittoriana, raffinato cultore del bello e affascinato dalle arti figurative, si appassionò presto alla fotografia, che coltivò a lungo come interesse parallelo a quello della scrittura, raggiungendo risultati ragguardevoli (che oggi lo annoverano tra i migliori fotografi dell’epoca vittoriana). Amava ritrarre bambine e adolescenti, verso cui nutriva un interesse (e, in alcuni casi, come quello di Alice Liddell, a cui ispirò e dedicò la stesura del visionario romanzo che l’ha reso celeberrimo, una vera e propria affezione, se non infatuazione) quasi voyeuristico, seppur platonico, che lo fece tacciare di pedofilia.
Nel 1850 si iscrisse alla Christ Church di Oxford, dove si distinse per meriti e ottenne successivamente una cattedra in matematica. Affascinato dalla logica intesa in senso illuministico e dalla sua controparte oscura, l’ignoto e non ancora svelato volto della psiche (per poterlo osservare bisognerà aspettare le scoperte di Freud, che proprio nel 1898, anno della morte di Carroll, pubblicava – ironia della sorte – “L’interpretazione dei sogni”, e che successivamente dedicò un’approfondita analisi psicoanalitica ad “Alice nel paese delle meraviglie”), Lewis Carroll riesce a fondere nelle sue narrazioni un insieme di elementi eterogenei e completamente diversi tra loro, creando un’alchimia impossibile da riprodurre, che solo il lettore ingenuo potrebbe giudicare un flusso inarrestabile di fantasticherie senza senso. In realtà il “non-sense” carrolliano nasconde significati misteriosi e profondi, soggetti a diversi livelli di interpretazione, in cui però è il simbolo – il rimando a qualcosa d’altro, che è là e allora (chissà dove?) piuttosto che qui e ora – prima ancora della fantasia, a regnare sovrano. L’alterazione spazio-temporale, le atmosfere volutamente oniriche e a tratti inquietanti, i giochi di parole e la parodia dell’assurdo sono tutti strumenti che lo scrittore utilizza sapientemente per mettere in discussione, e sottilmente irridere, il mondo degli adulti – quel mondo puritano e bigotto, moralista e pudico che è tipico dell’epoca vittoriana. Giocando col potere intramontabile della parola che eviscera, genera paradossi, capovolge e mette alla berlina ogni cosa, facendo crollare impalcature sociali e distruggendo i fragili castelli di convinzioni su cui precariamente poggia la vita dopo una certa età, Lewis Carroll mostra al lettore un mondo di sfumature, in cui non esistono certezze né confini né precise linee di demarcazione, ma solo equilibri instabili tra sogno e realtà, salute e malattia, fantasia e logica.
Mai la storia della letteratura ha conosciuto un più lucido attentatore alla ragione.