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Paolo Di Paolo vincitore del Superpremio Vittorini 2012

Paolo Di Paolo, romano, classe 1983 – e non è ozioso riferirlo – è il vincitore della diciassettesima edizione del Premio Vittorini.

Il primo luglio, durante una serata di luna piena e scirocco siracusano, Fabrizio Frizzi ha condotto brillantemente una serata di letteratura e musica, in cui le parole di Paolo Di Paolo, Valeria Parrella (Lettera di dimissioni, Einaudi), Pietrangelo Buttafuoco (Il lupo e la luna, Bompiani) – la terna degli scrittori premiati – e della giuria di docenti e giornalisti si sono intrecciate alle note del tenore Marcello Giordani, di Nina Zilli e Mario Biondi.

Roberto Andò (Il trono vuoto, Bompiani), è risultato vincitore della sezione dedicata all’opera prima.

Tra le eccellenze siciliane nel mondo che ricevono un riconoscimento nell’ambito del Premio, lo scienziato Antonino Zichichi, rappresentato dalla figlia Barbara in quanto assente giustificato: Siracusa, patria dello scienziato Archimede, ha vissuto per così dire in anteprima l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs.

Così come ogni anno, Siracusa rende omaggio, con questo premio a lui intitolato, alla memoria di Elio Vittorini, scrittore, talent-scout, organizzatore di cultura, figura fondamentale del Novecento non solo italiano.

Conosciamo meglio il vincitore Paolo Di Paolo: collabora con le pagine culturali de “L’Unità”, con il supplemento “Domenica” del “Sole 24 Ore”, con il settimanale “Gli Altri”, con la riviste “Nuovi Argomenti” e “L’indice dei libri del mese”. Ha diretto per l’editore Perrone la collana “Racconti d’Autore” e cura la collana “Argonauti” per Edilet. Conduce dal 2006 le Lezioni di Storia all’Auditorium Parco della Musica di Roma e attualmente collabora come autore alla trasmissione “Art News” di RaiTre.

Il suo ultimo romanzo, Dove eravate tutti (Feltrinelli), oltre ad essersi aggiudicato il Superpremio Vittorini (grazie ai voti  della giuria dei 100 lettori che scelgono il libro vincitore fra i tre della terna selezionata dalla commissione giudicatrice) ha vinto tra l’altro anche il Premio Mondello.

“Se gli anni senza nome devo raccontarli a qualcuno, voglio raccontarli a te”. Quali sono questi anni “senza nome”? Perché il protagonista del libro, il tuo Italo Tramontana dal nome antico e ventoso, ha quasi l’ossessione di collocare nel tempo la propria e le altrui vite?

Si sente un archeologo di se stesso e delle persone che ama. Studia storia all’università, certo, ma applica, o tenta di applicare, il metodo dello studioso a un passato più “domestico” di quello raccontato nei manuali. Immagina una ideale linea del tempo, una sorta di cronologia universal-personale nella quale i fatti privati e quelli pubblici fanno cortocircuito. Quanto incidono gli eventi del mondo sulle nostre piccole vite? L’irruzione delle notizie – in questo nostro tempo immolato all’Informazione – ha qualche effetto duraturo sulla nostra emotività, diciamo pure sull’interiorità?

 

Analizzando la tua produzione critica e letteraria, un fil rouge, un leitmotiv possibile per inquadrarla potrebbe essere quello del recupero memoriale. Hai detto che le biblioteche sono avamposti della memoria, che leggere è frequentare persone in una sorta di atto di resistenza non solo culturale – re-sistere è esserci due volte – e che perfino Facebook è una sorta di laboratorio di archeologia delle nostre vite. Come Italo, anche Paolo cerca attraverso il filo del ricordo, della ricostruzione, della restituzione, di orientarsi nel labirinto dell’esistenza?

 

In effetti fin dal primissimo libro di racconti si vede che è la memoria la mia ossessione letteraria. Come, quanto, perché ricordiamo. La lettura di Proust e di Virginia Woolf mi hanno segnato profondamente. Mi danno a capire se il passato ci determina realmente, o se è solo un accumulo di dati “a cui attingere quando lo richiede il calcolo del presente” (è una frase di John Updike che chiarisce il concetto utilizzando l’esempio del computer). Ho spesso la sensazione di non essere mai fino in fondo dove sono. Voglio dire: il presente mi sfugge, sguscia via. Guardarlo alla distanza mi sembra molte volte l’unico modo non dico di possederlo, ma di capirlo. 

Su un piano più specifico legato alla scrittura, sperimento ogni giorno un’ovvietà: senza memoria è impossibile scrivere. Anche nella storia più lontana da noi, nella storia affidata alla fantasia più lussureggiante, c’è un nocciolo di ricordi personali (diciamo pure di esperienza: come si descrive una carezza se non ne abbiamo fatto esperienza?). Un grande scrittore come Bradbury, scomparso di recente, dimostra come perfino la cosiddetta fantascienza sia una questione di memoria. Molti suoi romanzi, come per esempio Il popolo dell’autunno, fanno pensare a lui come a un narratore perfino nostalgico. 

 

 

Mi è molto piaciuta la dedica del Premio ad Antonio Tabucchi. Durante il tuo percorso letterario e umano hai sfiorato con la tua le vite di grandi come Indro Montanelli o appunto Tabucchi. Cosa hanno rappresentato per te? Cosa ti porti dentro dell’incontro con loro?

 

Mi porto dietro tanto. Forse perfino ciò che ancora non so o non ho riconosciuto. Ho avuto il privilegio di conoscere maestri di scrittura anche molto diversi. Li ho cercati, o stanati, anche solo per cercare di capire come si diventa ciò che si è. Non è semplice. Ma guardare all’opera persone che ammiri, sentirle raccontare è la migliore scuola per chiunque traffichi nei lavori creativi. 

 

 

Lo stile, la scrittura. Credi di aver trovato la tua “voce”? Qual è il tuo rapporto con lo scrivere, con la fisicità delle parole? Ritieni che la lingua possa afferrare lo spirito del tempo, catturarlo nella sua rete?

 

L’obiettivo di ogni autentico scrittore è quello di avere una voce riconoscibile, costruirla. Una voce solo sua, come quella dei grandi cantanti. Non so se l’ho trovata; certo è che mi impegno ogni giorno, scrivendo narrativa, a non lasciare nulla di intentato rispetto alle possibilità della lingua. Non solo nella direzione di afferrare lo spirito del tempo, ma di ciascun oggetto, paesaggio, immagine che prendo in esame. Non voglio che le parole passino sulla superficie delle cose, come accade in molti libri di successo.

 

I premi letterari e la Sicilia… questa terra sembra portarti fortuna. Quale credi sia oggi il senso di un premio letterario? Qual è il tuo rapporto con la Sicilia e gli scrittori siciliani?

 

I premi, bisogna dirlo senza imbarazzo, sono confortanti. Tenendo conto che la vita di un libro sugli scaffali delle librerie è sempre più breve, un premio serve anche a dare maggiore durata a un’opera. In ogni caso, un premio che unisce la scelta di critici e la scelta dei lettori è più che gratificante. 

Quanto alla Sicilia, ci torno più volte l’anno e sempre con entusiasmo. Banale dire qualcosa sulla bellezza dei luoghi; dirò invece che da Palermo a Catania a Siracusa a Messina conosco librai, lettori e animatori culturali straordinariamente vivaci, con cui è un vero piacere collaborare e dialogare. 

Non avrei scritto Raccontami la notte in cui sono nato senza Pirandello. Non avrei cominciato a scrivere un nuovo romanzo senza Il garofano rosso di Vittorini (ma l’emozione con cui lessi Conversazione in Sicilia è ancora molto viva in me). Ho avuto un piccolo ma fecondo scambio con Vincenzo Consolo, che ho conosciuto nel 2001, ero ancora uno studente di liceo e lui fu più che generoso, paterno. Potrei continuare a lungo, ma voglio aggiungere il mio amore per Verga. È passato di moda? Non so. Io ho imparato moltissimo dal suo modo di “muovere” la pagina. Ci sono alcune novelle, per non parlare dei suoi romanzi, che mi commuovono al solo ricordarle. E almeno una riga su Sciascia, dalla cui intelligenza sono conquistato (La scomparsa di Majorana è un libro che mi ha letteralmente cambiato). 

 

Il manifesto della diciassettesima edizione del Premio ritrae Vittorini, fotografato da Enzo Sellerio. Insieme a lui è stato ricordato Vincenzo Consolo, anch’egli recentemente scomparso, che fu più volte presidente della giuria del premio.

Riporto le parole lette da Fabrizio Frizzi e le dedico a chi ama la letteratura siciliana e quest’isola, culla di arte e cultura:

 

«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca».

(da Le pietre di Pantalica).