Le Operette morali non hanno bisogno di alcuna introduzione, e questo vale anche per il loro autore, il quale è stato artefice – come Dante, come Petrarca – di una prosa originalissima, un ibrido inconsueto di classicità (cultura greca) e modernità, di una poesia suggestiva che per innovazione e portata filosofica ha pochi eguali in tutta la cultura italiana, ed è stato un modello di intellettuale tra i più acuti, perseveranti e lungimiranti di tutta la cultura europea dell’800 e della cultura italiana in generale. Insomma, Giacomo Leopardi è il punto di non ritorno del nostro patrimonio culturale.
Nelle sue Operette, in modo particolare, si servì dei miti filosofici in negativo per definire, in modo perentorio e definitivo, in un linguaggio metaforico tra i più potenti e penetranti, la sua visione materialistica e pessimistica della condizione umana. Attraverso l’immaginazione letteraria e mitologica capovolse, paradossalmente, con una scrittura estrema ed urgente, i miti alla base di ogni società. Ispirandosi al linguaggio satirico di Luciano e ai dialoghi di Platone, inscenò un confronto tra voci diverse, racconti visionari, intuizioni metaforiche e originalissime allegorie fantastiche, in un mondo popolato da entità ataviche e divinità ancestrali. Ma questa materia è filtrata da un bagliore sinistro e ambiguo, l’occhio che osserva è partecipe e distaccato al contempo, sofferente ed ironico, tutto scritto da chi sembra essere consapevole del proprio dolore, un dolore sereno e rassegnatosi a prestare, con pacata indulgenza, una descrizione dai toni tragici e idilliaci di una mediocre umanità.
Si inizia con Storia del genere umano che presenta una storia mitica dell’umanità in cui i “fantasmi della Felicità” vengono ostacolati dall’arrivo della Verità, cui solo e tenacemente resiste il fantasma sublime dell’Amore celeste; segue il Dialogo d’Ercole e di Atlante in cui i dialoganti palleggiano col globo terrestre; Dialogo della Moda e della Morte, in cui il fare e il disfare della moda sulla terra sembra un’operazione simile a quella della morte, rendendo la vita << più morta che viva >>; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, in cui si assiste alla scomparsa totale degli uomini sulla terra lasciando una natura sola e indifferente.
Subito dopo si inserisce l’interessante Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, in cui si propone la bizzarra idea, in omaggio al secolo delle macchine, di costruire degli uomini artificiali con delle qualità che i veri uomini hanno perduto. Un’appassionata invocazione alla felicità viene invece proposta nel breve ma intenso Dialogo di Malambruno e di Farfarello, e dal più pacato Dialogo della Natura e di un’Anima. La relatività della condizione umana, della sua felicità e della sua terrificante predisposizione al dolore, viene proposta magistralmente nel famoso Dialogo della Terra e della Luna, con l’avvertimento finale che << il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo >>.
Ne La scommessa di Prometeo il titano si renderà conto, fallendo miseramente, della cattiveria umana e dei suoi barbari costumi dediti alla violenza; invece il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico propone la dicotomia vita/esistenza, una vita senza alcuna forte ed autentica passione; col celebre Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare viene proposta, con toni crepuscolari, l’impossibilità del poeta tanto amato dal Nostro di giungere al piacere, perché rende la vita << di sua propria natura uno stato violento >>.
Mi sembrava doveroso lasciare alla fine di questa brevissima sintesi dell’opera quelli che vengono considerati unanimemente i momenti più alti e straordinari del libro. Il primo, Dialogo della Natura con un Islandese, mostra una Natura nella più assoluta indifferenza nei confronti delle sofferenze umane, lasciando senza risposta la domanda dell’Islandese, che è quasi il sunto del pessimismo leopardiano: << a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? >>. L’altro invece, Cantico del gallo silvestre, mostra un antico animale sospeso tra la terra e il cielo che ricorda di buon mattino, a tutti i viventi, la suprema infelicità del vivere, e con essa il processo di distruzione che muove tutta l’esistenza. Le parole dell’animale si aggirano tra presagi di distruzione cosmica, ma l’imperituro fascino poetico di quest’opera straordinaria continuerà a contraddirlo.