La casa in collina e La luna e i falò sono le due opere a cui si suole accostare il nome di Cesare Pavese, figura di indiscusso fascino nel ‘900 italiano per la sua produzione letteraria e, parallelamente, per la sua biografia, contraddistinta dalla tragica morte avvenuta in un albergo di Torino il 27 agosto 1950.
Maggiormente noto al grande pubblico per le sue opere in prosa, Pavese si è tuttavia cimentato – e con notevoli risultati – anche nella poesia. Di più: la prima esperienza di Cesare Pavese scrittore si svolge proprio con una raccolta poetica, Lavorare stanca, a cui l’autore comincia a mettere mano nel 1931. La prima stampa, a cura di Solaria, esce nel 1936, tra una pacata indifferenza della critica e del pubblico. Solo più tardi, a partire dagli anni del neorealismo, l’opera avrebbe conosciuto un periodo di fortuna e maggior diffusione.
Quarantacinque componimenti poetici formano il volume, all’interno del quale l’intellettuale piemontese si cimenta in un esperimento coraggioso, uscendo di fatto fuori da una tradizione che proprio in quegli anni stava trovando la sua consacrazione e che si appoggiava, sostanzialmente, su situazioni di stampo lirico.
Le poesie di Pavese sono prosastiche. Legate a temi e personaggi della campagna e della città, esse ruotano attorno alle difficoltà della vita quotidiana e dei rapporti sociali: raccontano storie comuni di uomini e donne alla ricerca disperata e disillusa della felicità, di un senso da trovare alle cose. Contadini e piccolo-borghesi si dividono la scena sullo sfondo di una realtà indifferente più che nemica, dominata da un cupo grigiore che mai riesce a dare vigore ed energia ai faticosi sforzi che i personaggi compiono per uscire da questa situazione.
Dopo l’uscita della prima edizione, Pavese scrive altri componimenti e nel 1940 allestisce uan seconda edizione dell’opera, che appare nel 1943 e conta ben settanta componimenti divisi in sei sezioni: Antenati, Dopo, Città in campagna, Maternità, Legna verde, Paternità. La poesia che traspare dalla preziosa pagina pavesiana vuole essere realistica e simbolica al tempo stesso, nel senso che temi, personaggi e situazioni legati all’esperienza quotidiana assurgono a simbolo di una condizione esistenziale.
Quasta visione trova corrispondenza nello stile, come sempre accade per le grandi creazioni della letteratura: il ritmo del verso si svolge con una lunga cadenza iterativa, che riproduce una realtà condannata a riperere se stessa, i propri gesti e i propri riti, con una motonia che ha il sapore del primitivo… Fuori dal binario lirico della poesia degli anni Venti e Trenta, Cesare Pavese marca – fin dall’inizio del suo percorso artistico – la sua produzione con il timbro inconfondibile di quel legame ancestrale tra mito e realtà, che sarebbe stato presente anche nelle opere in prosa.
La Torino della prima metà di secolo, metafora di una “solitudine che è la fine dell’adolescenza”, è spesso l’ambiente e lo sfondo sul quale si staglia l’universo esistenziale di un’intera generazione.
Componimento poetico a sè stante, titolo di una raccolta e infine motto passato agli onori della Fama, lavorare stanca è diventata una frase celebre: due parole, una sentenza, un messaggio dai contorni sempre attuali.