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Michela Murgia: L’ultimo sospiro dell’ “Accabadora”.

Fillus de anima.

E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.

 

 

I confini, si sa, sono limiti segnati dagli uomini. Ma esistono luoghi in cui la natura, con i suoi maestosi tentacoli, scalfisce confini più profondi, invalicabili, che segnano l’appartenenza di un uomo alla sua terra in un matrimonio eterno. La perfetta sintesi di questo sentimento, l’essere sardo in un piccolo paese sardo, emerge dalle pagine di Michela Murgia, in uno dei romanzi che l’hanno consacrata nel podio dei grandi scrittori italiani.

L’ “Accabadora” è l’ultima madre. Antitesi della Madre cristiana, investita di una luce divina, l’Accabadora è un’ombra oscura, coperta da una veste più scura della notte, che accompagna il sofferente nell’ultimo sospiro della vita, a volte richiesto dal malato stesso, altre volte dalla sua famiglia.

Attraverso un linguaggio di silenzi e rituali, Michela Murgia racconta una storia di abbandoni e sentimenti che possono confessarsi solo con gli sguardi.

Maria Listru è l’ultima figlia mai desiderata di una madre che la cederà, senza troppi convenevoli, come figlia d’anima a Bonaria Urrai. Ed è proprio l’anima a legare la bambina e la “Tzia”, in un vincolo di profonda comprensione, in cui gli spazi delle loro individualità si definiscono sulle forme l’una dell’altra.

Maria non conosce il segreto di Bonaria, Accabadora per scelta di un volere indefinito.

Ha avuto la possibilità di rinascere due volte, e questa volta dal grembo di una madre che la considera “unica”. La sua innocenza, malcelata da un goffo tentativo di sentirsi già padrona della sua vita, contrasta con la descrizione di un paese in cui non c’è mai stato posto per l’innocenza. Solo al termine del suo viaggio, Maria lascia che le radici della sua terra la sovrastino, svelandole la sua vera appartenenza.

Nella storia di Bonaria, a cui il destino sembra aver riservato la sola oscurità della morte, persino nell’aspetto sospeso in un tempo passato, Michela Murgia muove la riflessione, ancora più profonda, di un confine anch’esso invisibile, ma palpabile: quello che separa il rispetto della vita dalla pietà, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.

Colorando il carattere dei suoi personaggi degli stessi colori della sua terra, Murgia definisce perfettamente le ritualità di un paese in cui le leggi non sono quelle scritte, ma quelle dettate dalla vita.

Nelle descrizioni dei dialoghi lasciati al vento, si avverte il sapore della salsedine che viene dal mare per correre tra le vigne, trascinando le storie di piccoli uomini verso confini più lontani.