– Domani alle sei e trenta che fai? – mi chiede Gabriele al telefono.
– Che faccio, sarò ancora al lavoro.
– No, sei e trenta del mattino.
– Del mattino?
– Dai, passami a prendere, andiamo in ospedale. Mi devono fare un prelievo.
– Stai male.
– No, no – e ride. Ha paura.
– Gà?
– Dai a domani, davanti casa mia.
La mattina dopo mi ritrovo in macchina che pare ancora notte, con le mascelle un po’ rigide per il freddo.
Gabriele è già fuori di casa e si avvicina rapido allo sportello della macchina ancora in movimento, costringendomi a inchiodare.
Mi fracassa la spalla destra per salutarmi: è ufficiale, ha paura. Tanto lo sapevo, ha una paura fottuta degli aghi, proprio come me. Neanche da morti, diciamo sempre.
– Allora, questo prelievo?
Mi dice che da oggi diventa donatore di sangue. Guadagna altri punti di ammirazione da parte mia ma qualcosa non va. In me. E non è per l’alzataccia.
Il riscaldamento della macchina fa un casino del diavolo, si parla poco, anzi, io non parlo più.
Arriviamo davanti all’ospedale e il posteggio si trova per miracolo. Si vede l’entrata del pronto soccorso e restiamo un attimo fermi dentro la macchina, mentre tirano giù una barella da un’ambulanza. Silenzio fuori, in silenzio noi. Sento che sta per dire qualcosa e apro lo sportello: – Allora, andiamo o no?
Entriamo e quelli dell’ambulatorio gli danno un modulo da compilare. Lo riempie con le dita rigide, le labbra risucchiate in dentro e il ginocchio che balla su e giù. Fa cadere la bottiglia d’acqua che gli hanno offerto, poggiata ai suoi piedi. Aspetto che rotolando vada a sbattere contro il muro di fronte e poi vado a raccoglierla. Lo chiamano per andare dentro e comincia a togliersi il giubbino di pelle ancora prima di alzarsi dalla sedia. Ha le spalle più squadrate del solito e non si volta mai indietro. Poi sparisce dietro l’angolo del corridoio. Mi siedo e mi rialzo per tre volte, poi rimango in piedi. Mi guardo attorno: non c’è tanta gente, ma neanche poca per essere così presto. Osservo gli altri donatori in attesa. C’è una coppietta giovane, il nonnetto sprint, la fashion-victim in carriera, e pure il mio carrozziere.
Lo saluto mostrandogli il palmo della mano, sollevando appena il braccio, con un sorriso tirato. Sono tutti bravissimi a mascherare la tensione. Ogni volta che incontrano il mio sguardo, mi sorridono. Io non ci riesco. Ogni tanto mi ricordo di respirare, neanche dovessi farlo io questo prelievo.
Sopra una sedia hanno lasciato il giornale di ieri.
Su una pagina c’è scritto: “I gay non possono donare sangue. E un altro ospedale chiude le porte”.
Tombola.
Fabio, il mio ex, con cui ogni tanto faccio ancora sesso, una volta me l’aveva spiegato che per le donazioni di sangue i gay non sono buoni. Nemmeno per la donazione degli organi siamo buoni. Di serie B anche da morti, disse. E’ sempre stato melodrammatico. Tutte le mattine, quando arriva in reparto, saluta le sue pazienti più anziane chiamandole Stelle Comete.
“Come stanno le mie stelle comete?” urla felice.
E poi all’Università: Simone.
Ci si conosceva da due giorni e mi chiese cosa ne pensavo di lui.
“In che senso?”
“Così, cosa ne pensi di me. Se sono simpatico, se ti sto sul cazzo” e fece una risatina acuta, con i denti piccoli sotto il labbro sottile.
Qualche settimana dopo ritornò all’attacco: “Posso farti una domanda personale?”
“No”
“Sei gay?”
“Sì”
“L’avevo capito. Da alcune cose. Non che si veda, ma… ”
Lui era bisessuale, invece. Si guardava allo specchio e si diceva che sì, uomini o donne era uguale. Sapevo che aveva una ragazza, con i capelli rossi e le lentiggini, li avevo visti assieme, una volta me l’aveva anche presentata. Le parlavo e lei mi guardava fisso, come se si aspettasse un passo falso o un insulto.
Simone mi confidò anche che aveva un gruppetto di amici insospettabili con cui s’incontrava.
Tutte persone con una certa posizione, disse. Avevo presente? Come no. Quelli del dopo calcetto, delle mogli che finalmente partono per il mare, del giorno di libertà settimanale concordato con la fidanzata, delle cene di lavoro che si prolungano, delle pause pranzo in sauna, con il cellulare lasciato nell’armadietto da andare a controllare ogni tanto – scusa amore, non lo sentivo. Le chat anonime e l’account segreto per Messenger. Le dune lontane dagli ombrelloni, i giardini di notte e i parcheggi degli autogrill.
Comunque, aggiunse, se avessi voluto fare sesso con lui, “no problem”. Anche lì, all’Università. I tempi morti e gli angoli nascosti non mancavano. E dai, che non mi dovevo preoccupare, che all’inizio se volevo faceva tutto lui, io non dovevo fare niente, solo chiudere gli occhi, e lasciare che mi mettesse le mani dentro le tasche.
E così fece. Affondò la mano fino al punto giusto, emise un breve verso compiaciuto e poi cominciò a tirare giù la zip, dentino dopo dentino. Un paio di volte sollevò la testa per guardarmi, come per dire “posso?”. Poi mi liberò dallo slip, fece le sue valutazioni mute e si avvicinò con la bocca. Era bravo.
Una mattina lo trovai al bar dell’Università che offriva la colazione a tutti. Festeggiava la sua prima medaglia d’oro. Cinquanta donazioni di sangue raggiunte. Donare il sangue fa bene, diceva. Il suo sangue in particolare faceva bene, era richiesto. Perché era ricco. Non era in grado di dire di cosa, ma era ricco. E faceva bene donare il sangue, faceva bene all’organismo. Avrei dovuto farlo anch’io, mi disse.
Ah già, che io non potevo. Lo sapevo, no?
Finalmente Gabriele riappare in fondo al corridoio.
Viene verso di me con un angolo del sorriso che trema, i capelli un po’ così, il giubbino in mano e una piccola fasciatura al braccio. Continua a ripetere grazie alle infermiere che quasi lo cacciano.
– Usciamo.
Sa che prima voglio fumare e ci fermiamo davanti la macchina. Tiene il braccio scostato dal corpo. Gli guardo il cerotto e lui rilassa la piega del gomito. Ha la pelle d’oca, il giubbino penzola dalle sue dita. Quando l’avrò lasciato davanti casa, messaggerò ad Agnese di ficcarlo sotto una coperta. Continua a torturare il buono-colazione che gli hanno consegnato dopo il prelievo.
– Allora, come mi vedi, diverso? – mi chiede.
– Mah. Con la solita faccia da stronzo.
Rimontiamo in macchina. Giro la chiave. L’aria calda era rimasta accesa e sussulto per il rumore improvviso.
Gabriele, seduto accanto a me, gioca con il cerotto sul braccio.
Rosso.
Dopo un po’ che non dico niente si gira impacciato col busto per darmi due affettuose boffe sulla nuca, come per incoraggiarmi.
Verde.
– Lo sai che ti voglio bene, sì? – mi chiede.
Mollo la frizione e parto.
Gabriele. Gabriele all’asilo che si fa la cacca addosso, e la maestra comincia a rincorrerlo con un paio di forbici per tagliarglielo, così non l’avrebbe fatto mai più, schifoso che non era altro. Lui tutto rosso che piange e corre attorno ai banchi, col culo sporco e il pisello che quasi scompare sopra lo scroto grinzoso.
Gabriele in punizione, io che lo guardo da dietro la vetrata della palestra vuota, dove deve stare in ginocchio e in silenzio, finché qualcuno non gli dà il permesso di muoversi, lo guardo e non la smetto di piangere e le maestre che per sfinimento lo liberano. Funzionava sempre.
Gabriele che non mi chiede mai perché non ho una ragazza.
I suoi amici, le sue donne, il suo calcio, i nostri film.
Gabriele che mi dice che si sposa e mi chiede scusa, io che lo spingo contro il muro e gli pianto un pugno sotto lo sterno, il primo e unico pugno della mia vita.
Ma che avevo capito?, gli dispiaceva solo che avremmo avuto meno tempo da passare insieme.
Che non dicesse stronzate, allora, e mi facesse fare da testimone.
Gabriele che mi chiede se mi può tenere la mano prima di dormire. E’ emozionato, perché il giorno dopo si sposa, e poi si addormenta, come un bambino con la barba di una settimana.
Sua moglie. Agnese. Agnese che indossa jeans, cappelli da uomo e fili di perle. Agnese alle undici di sera davanti al mio citofono, con la sua tisana speciale dentro la borsa, sempre pronta ad asciugare i miei pianti e senza dire niente a Gabriele “che lo sai che poi si preoccupa”.
Gabriele e sua madre. Gli altri che la vegliano, noi a vagare in macchina. Poi un blockbuster, qualche DVD sul cruscotto, fermi in doppia fila, fuori il nubifragio e Gabriele che finalmente piange.
Gabriele e suo figlio, stesso sorriso. Suo figlio ed io, stesso nome, stesso compleanno.
– Sì, lo so che mi vuoi bene. E allora?
– E allora dimmelo tu che cos’hai.
Viene fuori il sole. Gabriele mi guarda ancora e aspetta.
Spengo l’aria e comincio: – Te lo ricordi Simone?