Il viaggio come scoperta di sé e dell’altro, simile o diverso che sia.
Sviluppatasi nel 1300 (da ricordare il più celebre volume di Marco Polo, il “Milione”), la letteratura dedicata al peregrinare compie un percorso tortuoso ma efficace nel descrivere anche i cambiamenti della società. Prima attraverso forma epistolare, poi mistificato in un diario narratore e infine romanzato da emozioni, il viaggio non ha mai smesso di essere raccontato. La funzione comunicativa e, spesso, di studio e di indagine si trasforma col passare degli anni in pura curiosità, a volte in divertimento, o anche in brama di conoscenza. Conoscere, muoversi e scoprire angoli di mondi immaginati, attraverso gli occhi e le esperienze di qualcun altro.
I volumi continuano ad essere pubblicati e il mercato editoriale stesso si delinea e prende forma in base alle mode e ai consumi.
Ma chi è l’altro?
Lasciare casa, certezze e sicurezza per muoversi verso l’ignoto. E i mezzi per farlo sono di ogni genere e tipo. Niente comodità, né lusso né agi, solo uno spiccato senso di apertura verso la scoperta del nuovo. Cosa spinge allora un animo dedito alla mobilità a fermarsi per porre su carta, in maniera indelebile, ciò che i propri sensi divorano?
La voglia probabilmente di condividere e tramandare ciò che molti non vedranno né vivranno. Far rivivere un senso di assoluta serenità rispetto al mondo che ci circonda, un non rifiuto. E, per assurdo, i destinatari si classificano spesso tra coloro che hanno fatto dell’immobilità un credo assai difficile da scardinare.
Eppure Robert Louis Stevenson, acuto narratore di viaggi ed avventure, scrisse: «I libri sono abbastanza buoni in sé, ma sono un ben pallido sostituto della vita». Non esiste dunque un supplemento alla vita stessa che riesca, per quanto ben fatto, a riprodurre emozioni ed immagini?
Il bisogno allora diventa puramente egoistico, laddove scrivere è raccontare di sé e del mondo che si guarda. Imprimere per non dimenticare, imprimere per diffondere una propria conoscenza, imprimere per tramandare nel tempo qualcosa di personale che smette di esserlo nel momento in cui lo si condivide.
Eppure in francese la parola voyage indica e il puro viaggio e il diario di viaggio, specifiche linguistiche che riportano alla querelle iniziale. La naturale propensione dell’uomo è quella alla mobilità, alla scoperta, alla conoscenza? O sono questi ultimi meri palliativi per un malessere ed una insoddisfazioni cronici?
«Eravamo in quattro — George, e William Samuel Harris, e io, e Montmorency. Eravamo seduti in camera mia a fumare e discorrere di quanto stessimo male — male da un punto di vista sanitario, intendo, si capisce.
Ci sentivamo tutti depressi, il che incominciava a innervosirci. Harris disse che a momenti lo coglievano degli spaventosi attacchi di vertigini, tali da fargli perdere la cognizione di quel che stava facendo; allora George disse che anche lui aveva degli attacchi di vertigini che gli facevano perdere la cognizione di quel che stava facendo. Dal canto mio, era il fegato a darmi dei dispiaceri. Sapevo di avere il fegato in disordine perché avevo appena letto le avvertenze di certe pillole per il fegato, in cui erano descritti nel dettaglio svariati sintomi in base ai quali uno poteva stabilire quando avesse il fegato fuori posto. Io li avevo tutti…»
(“Tre uomini in una barca” – Jerome Klapka Jerome)
Non è dato sapere, forse perché non sono i motivi lo sprone principale, ma gli obiettivi. Raccontare, tramandare, ricordare, qualsiasi sia il supporto materiale, qualunque sia l’ascoltatore, basta un viaggio.