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La felicità ai tempi del consumismo

Quante volte vi siete chiesti se fossero necessari, per essere felici, tutti quegli oggetti di cui siamo circondati? Due telefoni cellulari, un personal computer, un ipod, un’automobile, ecc..

 

Il consumismo  non ha fatto altro che interferire e condizionare la vita sociale di chiunque, innescando il meccanismo di farci desiderare cose per lo più inutili e destinate a durare un breve tempo prima che passino di moda e che vengano sostituite da altre.

Il fenomeno è strettamente legato a quello dell’industrializzazione, che vede diventare l’Italia scenario di una forte crescita, che stravolge le strutture economiche e sociali tradizionali. Le conseguenze sono evidenti: nuovi macchinari, nuovi sistemi di produzione. Il lavoro è frammentato in funzioni elementari e ripetitive in modo da elevare al massimo il rendimento produttivo dell’operaio, che ne risulta inevitabilmente alienato. Il tema dell’alienazione diventa “caro” a non pochi intellettuali del periodo fine Ottocento, inizio Novecento. Questi intuiscono la totale spersonalizzazione a cui l’uomo è sottoposto, colgono il senso di smarrimento dell’io all’interno di questa nuova grande metropoli che è diventata il mondo.

Pirandello esplicita il ruolo ormai declassato dell’artista/scrittore attraverso i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, opponendosi all’industria culturale che riduce a merce di scambio anche l’arte, pur di rispettare l’universale logica del guadagno. Svevo invece mette in luce il senso di profonda solitudine che caratterizza l’uomo della società contemporanea, e che diventa la causa della “malattia” che corrode lo spirito e ne determina la nevrosi, identificata nel personaggio dell’ “inetto”, figura immancabile nei suoi romanzi.

 

La sensazione di sentirsi sopraffatti da tutti questi beni materiali e di perdere di vista i veri obiettivi diventa l’oggetto di riflessione di scrittori così come di persone comuni, immerse nello stile di vita che la società ha scelto per loro. Talvolta succede che questo stile di vita ci stia così stretto da togliere il fiato, da farci credere che l’unica soluzione è un taglio netto. Nascono così storie di eroi, che non vorrebbero essere chiamati tali, ma che meritano di essere raccontate, perché le loro scelte diventino un monito per tutti. E a cosa serve la letteratura se non a raccontare?

 

A raccontare la storia di Christopher McCandless è stato Jon Krakauer.

Il primo è un ragazzo della Virginia, di famiglia benestante e laureato a pieni voti all’Università Emory, che a 22 anni decide di abbandonare tutti i suoi averi, la famiglia e la sua stessa identità per immergersi “nelle terre selvagge”, perseguendo il sogno di raggiungere l’Alaska.

Il secondo è un saggista statunitense che lavora per l’ Outside Magazine. Viene a conoscenza della storia di Christopher, decide di scriverne un articolo ma il desiderio di approfondirne i segreti è più forte. Nasce Into the wild, un libro ispirato alla vita di Alexander Supertramp (è questo lo pseudonimo che il ragazzo si è dato) e che racconta il viaggio, rigorosamente in autostop, tra Stati Uniti occidentali e Messico.

Il libro è pieno di citazioni, di poesie e documenti. McCandless è un lettore accanito, ama Tolstoj: è affascinato dal fatto che avesse saputo abbandonare benessere e privilegi per frequentare gli indigenti. Legge Jack London, Henry David Thoreau, dal quale riprende la massima, esplicitata da Sean Penn nell’omonimo film, che recita:

 

Non l’amore, non i soldi, non la fama, non la giustizia. Datemi la verità.”

 

Alla ricerca della verità, di se stesso, del proprio essere più profondo, arriva in Alaska e vive in quello che definì egli stesso, sul proprio diario, il magic bus, dove sarebbe vissuto per 112 giorni prima di morire, forse di fame, in estrema solitudine.

In una lettera ad un suo amico, Christopher scrive:

 

C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo.

 

La storia di Christopher e del suo triste epilogo è probabilmente la storia di una felicità voluta, ricercata, chissà, forse trovata. Resta impressa, soprattutto grazie a Krakauer, alla sua tenacia nel voler raccontare.

 

Ma rimane un punto di domanda, qualcosa di irrisolto: è questa felicità?