Mi guarda come da uno specchio, cercando in me le parole che gli supplico. Chiede di leggere una storia qualsiasi, senza eroi, un paesaggio urbano che faccia da sfondo a questi anni distratti. Ma i personaggi sono fermi in mente come treni al rimessaggio. Rinunciano a venire fuori, un po’ come me, e neppure iniziano a espandersi, a cercarsi. C’era un tempo che sembrava volessero uscire dalle pagine, per quanto erano vivi! Oggi invece no, e se ne stanno fermi, sperano che una mente più libera e visionaria li prenda per mano. Forse è per questo che le mani sulla carta si sono fatte via via più incerte, e l’inchiostro ha smesso di macchiare le mani di blu. Perché gli oggetti sentono la passione, ma soprattutto la sua assenza. E di fronte allo smarrimento della fantasia, fanno ammutinamento, e cambiano padrone. Puoi bere un caffè, camminare tutta una stanza e aperta la porta, affacciarti nel sottoscala: non è lì che sono andate a finire le idee. Paiono essiccate le sorgenti di ogni ispirazione. Non sono gli occhi enigmatici e giallolucenti del gatto di casa che per quanto miagoli di disappunto sembra comunque avere più pensieri di me. Non è il volto di lei, arsa sul divano dal primo caldo e dalla naturale indolenza di giugno, e neppure i piccoli muri di carte, usati per fare trincea, in uno studio che sembra un ospedale da campo della guerra di Crimea. Forse, ecco, è la piccola Matiz, e i suoi quasi centoquarantamila chilometri che ha in sé come un soffione il seme di una storia, forse il racconto di una scorciatoia che diviene un perdersi tra contrade, dove un gufo della prima sera rischia l’impatto, e il sentiero si restringe fino ad avvolgere le lamiere azzurre di fogliame e rami.