La scritta è un pugno di lettere sgangherate color lilla allegro.
ALZATI E CAMMINA… VERSO DI ME! TI AMO, P.
Marco ogni tanto si tasta il gesso e sorride, poi mi guarda e stringe pollice e indice davanti alla bocca.
Si vede che quelle parole gli illuminano la giornata e che forse nella pausa caffè mi confesserà chi è il P. che lo fa sembrare così bello e sereno nonostante un piede rotto e una corsa in ospedale giovedì sera, dopo la partita di calcetto. Io quasi piangevo, invece lui forse è perfino contento della frattura e di quel gesso che è meglio di un trofeo.
Sorrido anch’io ma la mia è una smorfia malriuscita.
All’improvviso questo ufficio è diventato un forno e la cravatta è un nodo scorsoio.
Vorrei essere stato io a scrivere quella frase e a fargli splendere la faccia.
Maledetta timidezza, che mi fa tremare le mani quando devo passargli una pratica, che mi fa abbassare la voce quando gli leggo un comunicato.
Non mi ricordo com’è cominciato tutto.
Comincia e basta.
Qui l’ambiente è tranquillo, qualche battuta sul fatto che non tocco il sedere a Monia e non ci provo neanche con le stagiste, ma niente di più.
Con Marco solo qualche occhiata. È con me che fa la pausa caffè, è a me che scrocca le sigarette… ma non riesco a farmi avanti.
Sapessi almeno giocare a calcetto… vado al campo a tifare per la sua squadra, quello sì. Mi accontento di un sorriso, di una pacca sulla spalla.
Invece P. gli scrive sul gesso col pennarello – lilla! – , sicuro di sé, aspettando solo che si rimetta in piedi e gli corra incontro. Come vorrei fare io.
L’una. È ora di chiudere.
Marco chiude a chiave i cassetti della scrivania, sistema le carte, saltella fino all’attaccapanni e indossa in fretta la giacca.
Ho ancora in bocca il sapore del caffè, uno sputo più amaro del solito che mi è restato sullo stomaco. Cinque minuti davanti a quella dannata macchinetta e non abbiamo neanche parlato. E adesso è tardi.
Marco ha ancora quel sorriso stampato sulla faccia. Clacson. Un suono allegro, proprio da fine giornata.
Il sorriso di Marco si allarga.
«Michele, mi è venuta a prendere Paola. Dài, usciamo che te la presento».