Mi sentivo, come per la prima volta, lontano, estraneo ai tumulti della vita: il clamore, la febbre, la lotta eran sospesi; una sosta era concessa alle segrete oppressioni del cuore…. una specie di giorno festivo, una specie di tregua agli umani travagli. Le speranze, infioranti i sentieri della vita, si fondevano con la pace propria della tomba; i moti del mio intelletto erano instancabili come i cieli, ma tutte le angosce si placavano in una calma alcionia; su tutto regnava una tranquillità, non frutto d’inerzia, ma risultato d’un equilibrio di forze contrarie ed eguali; infinita energia, infinito riposo.
Thomas De Quincey parla di sé nel libro Confessions of an English opium-eater ; lo scrittore non ha filtri e con una sincerità che spiazza il lettore, racconta del suo incontro con l’oppio, la droga in grado di fargli cambiare prospettive in maniera sconcertante.
È risaputo che gli artisti, o meglio alcuni di essi, abbiano trovato un mezzo “fuori dal loro io” per ispirarsi e, per De Quincey, la musa è stata la droga; il suo scritto è autobiografico, una confessione di chi nel baratro ci è caduto insieme alla sua scrittura, il suo cuore, la sua vita, la sua arte. Avvicinatosi all’oppio con atteggiamento restio ne è diventato nel corso degli anni (e dei fogli) vittima, totalmente assuefatto alla sostanza che se da una parte gli ha dato libertà creativa oltre ogni limite, dall’altra gli ha tolto una vita normale, facendolo allontanare dagli affetti, dai progetti, da se stesso. Sottolinea nel suo romanzo le varie fasi, in una prosa asciutta, tentennante come i pensieri e i gesti dell’uomo distorto e in balia dell’oppio; avvicinamento, curiosità, dipendenza, autodistruzione. Perché l’autore ha scelto di mettersi a nudo in questo modo? Raccontare se stesso, in una Londra del XIX secolo, raccontare dei suoi viaggi, del suo amore per gli studi, e poi di quella droga che di stupefacente, a conti fatti e nella cronaca del Quincey, non ha nulla. Ecco il motivo: lo scrittore ha fatto di se stesso l’esempio da non seguire; con dovizia di particolari ha messo al corrente il lettore della dipendenza da un male che fa solo male, che trascina giù intaccando ogni fibra del suo corpo fino a non diventare altro che un involucro di oppio. Cosa non bisogna fare… “Ha mangiato” l’oppio e insieme a lui l’hanno mangiato tutti quelli che hanno letto la sua storia, con la differenza che lui, di quella droga se ne è nutrito davvero, pagando a caro prezzo il regalo della sua musa allucinogena.
“Eccoti qua, cortese lettore, la storia di un notevole periodo della mia vita: e confido che sarà per te, come è stata per me, non solo una storia interessante, ma in qualche modo anche utile e istruttiva. L’ho scritta con questa speranza, e questa sia la mia scusa se son venuto meno a quel delicato, dignitoso riserbo che per lo più ci trattiene dall’esporre in pubblico i nostri errori e le nostre debolezze”.