Martin Heidegger nasce negli anni antecedenti la prima guerra mondiale, tra Wittgenstein e Hitler. Anni in cui c’era grande ottimismo tecnologico e scientifico, inaugurato dall’avanzamento del capitalismo industriale. La “Grande guerra” viene ricordata soprattutto per le dimensioni incalcolabili di materiale utilizzato a scopo bellico. Non è un caso che le più grandi industrie meccaniche del ‘900 lavoravano per la produzione di armi militari. Molti cannoni e aeroplani di quel periodo portano la firma Ford e Fiat.
Progresso e distruzione: solo innestandola tra questi due termini, che compongono gli aspetti dello stesso paradigma, si comprende la portata dell’opera più importante e provocatoria di Heidegger, Essere e tempo.
Pubblicata nel 1927, essa è il culmine dell’insofferenza umanistica verso un mondo totalmente calcolatore e razionalizzato, dove l’umano talento viene subordinato all’organizzazione economica e scientifica del lavoro, assimilabile alle famose catene di montaggio rese note dalle scene irriverenti e intramontabili di Tempi moderni, la celebre pellicola di Chaplin.
Heidegger fu uno dei primi del secolo scorso a scagliarsi contro l’altra faccia del progresso tecno-scientifico, che si espresse senza mezze misure durante il cataclisma del conflitto mondiale. Dinnanzi alla violenza e agli eccidi perpetrati durante i primi decenni del ‘900, le questioni ontologiche sollevate dal filosofo tedesco cercano di mettere in discussione le fondamenta della metafisica occidentale, e di rinnovare, al suo interno, il discorso concernente la condizione umana.
Secondo la grande tradizione ellenica, l’Essere è prima di tutto ciò che permane, ciò che è sempre uguale a sé, che non è soggetto al mutamento ma che si dona alla conoscenza come oggetto visibile agli occhi dell’anima (o della mente). Da ciò deriva la conoscenza dell’umanità: se è un Ente immutabile non soggetto al divenire, l’uomo è oggettivo. Ma l’uomo è fatto anche di sogni, speranze, passato e avvenire; la sua natura è profonda e labirintica, quindi radicale, senza ridursi a mero calcolo o ad una aprioristica organizzazione.
La speculazione teoretica di Essere e tempo ruota attorno al problema dell’Essere inteso come uomo esistente. L’uomo ha ereditato qualcosa che per sua natura non gli appartiene, e che secondo Heidegger ha segnato ineluttabilmente tutta la cultura occidentale: se l’Essere è oggettivo, allora io, in quanto uomo, cosa sono? Non sono oggettivo perché non sono un oggetto, quindi non sono calcolabile e determinabile. Io non esisto semplicemente. Io sono un esistente, ed esisto in quanto tale perché ho un’esistenza che continuamente pretende di essere compiuta. Il mio esistere non è solo una collocazione spazio-temporale, come un oggetto qualsiasi, ma corrisponde continuamente a un appello che facciamo al mondo: io ci sono. Non è più l’Essere la mia preoccupazione, ma è l’esserci che più conta per me, cioè di essere qui, ora, adesso, ma anche altrove, in costante cambiamento, in un divenire che sottende la mia vita, ciò che sono, sarò o potrò essere. Sono un progetto che non può essere determinato, oggettivato, perché io soltanto sono la misura di questo lavoro, la sua decenza, la dignità di me stesso.
Progetto: perché il mondo per me è in realtà un insieme di cose; non sto lì come ente immobile ed immutabile, ma muovendomi guardo il mondo come un insieme di strumenti; anche l’aria è uno strumento, e sono certo della sua utilità; non esisto come un oggetto, ma sono gli oggetti ad essere dipendenti al mio esistere; la mia natura progetta, ed ogni volta che cozza con degli oggetti non lo fa casualmente. Essa è sempre spinta da un interesse, da un’aspettativa, da un presupposto da cui s’innalza la conoscenza che io ho del mio mondo.
A nostra insaputa, siamo anche dei progetti gettati, catapultati nell’unico mondo che ci è concesso, senza alcuna possibilità di scelta. Ciò corrisponde alla nostra natura limitata in quanto uomini, esseri destinati a soccombere. Tale progetto è una conoscenza all’interno di un orizzonte culturale e linguistico ben definito. Prima che la storia spazzi via altre civiltà, lingue e culture, secondo Heidegger abbiamo la responsabilità e il dovere di vivere entro questo mondo e il suo orizzonte.
Da ciò soltanto proviene l’autenticità, il rapporto che ogni individuo stipula con la propria mortalità. Non tutto ci è permesso, ed è giusto valorizzare e riempire di senso e di bellezza tale progetto, ovvero la nostra esistenza. La nostra autenticità risponde sempre a un appello che proveniente dalla storia, dal mio orizzonte culturale, dal mio linguaggio e dalla mia famiglia, dal mondo che mi circonda. Senza questa finitezza, i miei limiti, e l’appartenenza a un’esistenza in difetto, non potrei mai guardare il mondo e arricchire la mia conoscenza, meravigliarmi di ciò che sono.
Tutto ciò che concerne l’esserci non è una verità assoluta. Solo la responsabilità e il dovere morale verso la propria esistenza fa della vita qualcosa che mai perirà su questo mondo.