Ripercorrere la genesi che ha portato alla stesura definitiva de I Promessi Sposi sarebbe impresa troppo ardua. Critici e filologi hanno speso gran parte della loro attività a fare chiarezza sulle tappe che hanno portato a quel romanzo che noi oggi leggiamo, interpretiamo, ammiriamo e studiamo: tale è l’importanza che merita una delle più grandi opere della storia della letteratura, eccellenza italiana, testamento ai posteri di Alessandro Manzoni.
Un capolavoro del genere non può certamente uscire dal nulla. Al contrario, esso è il frutto di un lavoro lungo, elaborato, meticoloso, oggetto di più “ristrutturazioni” sia dal punto di vista contenutistico che linguistico. Il primo step dell’opera è costituito da una redazione a lungo trascurata da gran parte della critica, ma da qualche anno a questa parte giustamente rivalutata: stiamo parlando del Fermo e Lucia, cominciato da Alessandro Manzoni il lontano 24 aprile del 1821 (come ci attesta la data che si legge all’inizio del manoscritto autografo).
La domanda che studiosi e lettori si sono posti nel corso del tempo è stata sempre la stessa: Fermo e Lucia è “soltanto” un laboratorio di scrittura, una sorta di grande prova per i più celebri Promessi Sposi, oppure è da considerarsi come opera autonoma, che ha una propria linfa vitale, un’autonomia tutta sua, a a prescindere dal confronto con le sue elaborazioni successive? Non è certo una domanda retorica, e dare una risposta non è facile. Noi ci proviamo, consapevoli del fatto che, in questa come in gran parte delle questioni irrisolte, in medio stat virtus.
E allora ci sentiamo di affermare che è assolutamente comprensibile legare il Fermo e Lucia all’idea di un grande laboratorio alla luce de I Promessi Sposi: non potrebbe essere altrimenti, dal momento che la struttura della trama è pressocchè identica. È qui che nascono i grandi personaggi manzoniani: Lucia e Fermo (che diverrà poi Renzo), Geltrude (il cui nome sarà leggermente ritoccato in Gertrude), Don Rodrigo, il cardinale Federigo Borromeo e il Conte del Sagrato (il più celebre Innominato).
Con le successive redazioni del romanzo – prima Gli Sposi Promessi, poi l’edizione ventisettana e infine la “quarantana” – l’opera assume quei contorni che oggi noi conosciamo. Sugli altari della Fama è salita l’edizione del 1840, eppure non sono mancate, nel corso del tempo e fino ad oggi, le voci di coloro che preferiscono la redazione originaria del Fermo e Lucia, concepita come opera autonoma e con caratteri tutti a sè stanti. Ma quali sono queste peculiarità? Di certo una parte delle ragioni di questo fenomeno è ascrivibile al fascino evergreen delle opere più antiche, che sembrano conservare e trasmettere un senso di innocenza, di natura non contaminata, di spontaneità.
Ma, oltre a ciò, il Fermo e Lucia contiene anche tratti più sostanziali: innanzitutto la lingua, una lingua composita in cui si sovrappongono elementi toscani, lombardi, francesizzanti e latineggianti. Alla varietà dell’impasto linguistico corrisponde una varietà di livelli stilistici, che si adeguano ai mutevoli toni della narrazione. Soprattutto, il Fermo e Lucia è un romanzo nel quale la distinzione tra bene e male risulta quanto mai netta, molto più radicale rispetto alla redazione definitiva: da una parte ci sono gli umili, gli oppressi, dall’altra i potenti, spinti esclusivamente da propositi di malvagità e prevaricazione. Questa dicotomia crea personaggi positivi e negativi, che si dividono la scena di un romanzo più “gotico”, molto più dark – potremmo dire – de I Promessi Sposi: l’atmosfera spesso è inquietante, le tinte risultano forti e l’analisi morale è marcata. Sono caratteristiche, queste, tipiche della letteratura del tardo Settecento.
Sul mondo del romanzo troneggia lo sguardo di Manzoni: uno sguardo di denuncia, di pessimismo e di malinconia acuta, che segnano in modo inequivocabile la prima scrittura della storia di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella.