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C’erano una volta gli “editori”

C’erano una volta gli editori.

Non che oggi la categoria sia estinta, ma quelli di cui parlo sono entrati nella Storia pur con tutte le loro idiosincrasie o manie di protagonismo o velleità ideologiche. I loro nomi dovrebbero suonare familiari al pubblico dei lettori.

Provo a citarne qualcuno tirandolo fuori dal cilindro della memoria. Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Giangiacomo Feltrinelli, Leo Longanesi, Angelo Rizzoli, Arnoldo Mondadori e tanti altri.

Alcune iniziative editoriali si devono proprio a loro.

La BUR, per esempio, tascabile della Rizzoli, con il suo cartoncino grigio-topo, è oggi un esempio di ottima iniziativa. Siamo nel 1949 quando Angelo Rizzoli affida a Paolo Lecaldano (esperto di storia dell’arte) la direzione di questa collana, poverissima nei materiali, ma ricca di autori eccellenti e di altrettanto eccellenti traduzioni. E, un decennio dopo, vedranno la luce gli Oscar Mondadori, stesso spirito, stessa avventura.

Poi c’era Giulio Einaudi che ebbe come pima sede un bugigattolo nella vecchia Torino. Ma l’antro era frequentato da personaggi come Cesare Pavese, Leone e Natalia Ginzburg, Gaime Pintor, Massimo Mila, primo nucleo di redattori della casa editrice.

Nel 1951 Elio Vittorini progettò per l’Einaudi la collana de I gettoni, pubblicando il meglio della narrativa italiana. Ancora oggi i risvolti, redatti dallo stesso Vittorini, sono un pezzo di storia letteraria dell’Italia del dopoguerra.

Più tardi all’Einaudi sarebbe approdato anche Italo Calvino.

Molti intellettuali italiani (scrittori, giornalisti, semiologi, storici, antropologi, etc.) facevano il loro lavoro e frequentavano le case editrici perché era lì che le idee si trasformano in passione.

Insomma c’erano gli editori, i redattori, ma soprattutto c’erano i libri. A nessuno passava per la mente che un libro fosse una merce analoga a tutte le altre. Il libro era soprattutto un’idea o un’emozione incarnata in una fisicità tangibile di carta, copertina e inchiostro. Per noi lettori era un amico da strapazzare con segni di matita o pennarello, da portare su autobus e metropolitane, da tirar fuori nelle attese di un appuntamento o da cercare quando lo perdevamo di vista.

Alla fine degli anni ’80 la scena editoriale italiana cambia. Agli editori subentrano i manager. Alle Case Editrici i Gruppi Editoriali. Alla fine degli anni ’80 cade il Muro di Berlino. Le ideologie cadono con lo sbriciolamento, ma la logica del profitto rimane inalterata. La parola d’ordine è vendere di più per fare più fatturato. La prima casa editrice italiana a cadere sotto il peso della finanza è la Mondadori. La Mondadori ha acquistato nel corso degli anni altre case editrici e in particolare la Giulio Einaudi editore S.p.A (100%), la Sperling e Kupfer editori S.p.A (100%), Edizioni Piemme S.p.A (90%), Mondadori Electa S.p.A. (100%), Mondadori Educazion S.p.A. (100%), Harlequin Mondadori S.p.A (50%), Edizioni EL S.r.l. (50%), Gruppo Editorial Random Hause Mondadori S.L (50%), Mach 2 Libri S.p.A, (34,91%). Altri tre gruppi editoriali si sono aggiunti alla Mondadori: la RCS Mediagroup, Messagerie Italiane e De Agostini. La concentrazione di sigle editoriali vede anche altri case editrici protagoniste. Ad esempio la Feltrinelli ha incorporato la casa editrice Apogeo e la PDE, la seconda struttura distributiva italiana. Ma c’è una differenza tra gruppo editoriale e singoli fenomeni di fusione. Per gruppo editoriale deve intendersi un agglomerato di sigle che è controllato da una società madre, il cui pacchetto azionario appartiene a società prettamente finanziarie e che non hanno alcun trascorso editoriale.

Da ciò si deduce che l’influenza di un gruppo è enorme se paragonata alla casa editrice di medie dimensioni. I libri prodotti si trovano praticamente ovunque e non solo in libreria. Qualsiasi supermercato ha uno spazio dedicato a loro, e anche gli autogrill come i tabaccai. Gli uffici stampa fanno ben poca fatica per una recensione o per piazzare qualche loro volume in qualche premio letterario.

Basta scorrere l’albo dei premi letterari più importanti per rendersene conto. Nel 2010 il Premio Strega è stato vinto da Pennacchi, Canale Mussolini, edito da Mondadori, nel 2009 da Scarpa con Stabat Mater, Einaudi (ovvero gruppo Mondadori), nel 2008 da Giordano con La solitudine dei numeri primi, Mondadori, nel 2007 da Ammaniti con Come Dio comanda (Mondadori).

Sul piano dei costi un gruppo editoriale opera con tipografie proprie e imponendo per ogni volume tempi di lavorazione redazionale ridotti e ciò ricade spesso sulla qualità del libro. Inoltre ha una distribuzione propria che gli consente di praticare sconti maggiori e tempi di pagamento allungati.

Ma ha anche un ufficio marketing che sta a valle della produzione delle singole case editrici. Anni addietro il processo era inverso. C’era l’idea, poi il libro e infine il marketing analizzava le tendenze del pubblico per quel libro. Adesso, prima di varare un progetto, si verificano le sue potenzialità di vendita. Si verifica anche, cosa ancor più grave, la tenuta linguistica di un testo. Niente sperimentalismi o azzardi lessicali, la lingua deve essere quella standard dell’italiano medio.

In un universo del genere scrittori come Gadda, Sciascia, Bufalino, Consolo, D’Arrigo non sarebbero nemmeno nati.

Il rapporto sullo stato dell’editoria (pubblicato dall’AIE – Associazione Italiani Editori) è ancora più chiaro. Il gruppo A. Mondadori occupa una fetta del mercato pari al 27,4%, il Gruppo RCS 11,9%, Il gruppo Messagerie il 10,6%. Mancano i dati per il gruppo De Agostini, ma i tre gruppi occupano una fetta del mercato pari al 50%. A latere una miriadi di piccole e medie sigle ridotte ai margini del mercato. Eppure proprio dalle case editrici indipendenti vengono le proposte editoriali più interessanti e più innovative. Basti pensare alla siciliana Sellerio, che fu la casa editrice di Bufalino o alla E/O, la casa editrice che ha scoperto Elena Ferrante o la casa editrice Iperborea, che spazia nella letteratura del Nord-Europa.

Il libro è allora un oggetto destinato a tramontare. Di questo si parla da decenni e di volta in volta si cercano le responsabilità. In Italia si legge poco, si dice, o si guarda troppa televisione o l’editoria elettronica soppianterà questo oggetto di carta e inchiostro. Il libro è a rischio, ma è a rischio soprattutto perché lo si immagina solo come una merce che deve produrre profitto. Le idee sono sempre più deboli. Di chi la responsabilità?

Di tutti noi, che ci siamo adagiati su uno sfondo senza passato e senza futuro, di noi che ci accontentiamo del rapido consumo degli oggetti.

“È uno struzzo, quello dell’Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia”, diceva Norberto Bobbio a proposito del logo della casa editrice che è appunto uno struzzo. Erano anni diversi, ma poi lo struzzo la testa l’ha nascosta, e insieme a lui tutti noi che di questa società facciamo parte.