Prima che sia troppo tardi, prima che la notte venga a fermare la mano, prima che la libertà subisca l’ennesima offesa.
Prima che la morte esegua l’ultimo rapimento.
E allora via con una confessione urlata, impetuosa, scandalosa, devastata, disperata!
La voce “contro” dello scrittore cubano Reinaldo Arenas si esprime attraverso le pagine di questo libro, scritte con l’ansia di testimoniare la sua vita, appuntate di fretta tra una fuga e l’altra, sottratte alla furia distruttrice dei persecutori.
Indietro, ai ricordi dell’infanzia, trascorsa tra le montagne, gli alberi e gli animali, libero di vagare tra i boschi, di annusare ed assaggiare la terra, quella terra che è forza potente, radice di ogni essere vivente, che si nutre di leggende, fantastiche apparizioni, riti scaramantici, di cui la nonna, la madre e le tante figure femminili di contorno, sono le vestali. Una natura che è anche rappresentazione estrema di violenza e sessualità, cui si abbeverano le sue prime fantasie, nutrite attraverso gli impacciati contatti con i compagni di scorrerie.
Il regime di Castro lo coglie poi, alla fine degli anni cinquanta, adolescente in cerca di riscatto dalla miseria morale e materiale del villaggio in cui è andato a vivere con la famiglia.
Sarà allievo di un’improbabile scuola per contabili agricoli, che presto si rivelerà un centro di indottrinamento alle teorie comuniste, parteciperà ad un corso di pianificazione all’Università dell’Avana, vivrà a contatto con le più brillanti menti del paese lavorando alla biblioteca nazionale, comincerà le prime prove di scrittura, farà esperienza di dissenso in un paese in cui ogni voce non omologata si vedrà costretta alla fuga o alla ritrattazione.
Perseguitato perché omosessuale, perseguitato perché scrittore, che con le sue parole lascia la traccia di un diverso racconto del regime, ne svela gli angoli bui, non illuminati dall’aura di avventuroso romanticismo, cui l’opinione pubblica dell’epoca aveva così perfettamente aderito.
L’iconografia di Castro, costruita in antitesi a quella gaudente del suo predecessore, elaborava elementi di purezza ed incorruttibilità difficilmente contestabili.
Ma Arenas mostra il quadro nella sua interezza, ci dice tutto sulla deriva autoritaria di questa dittatura, sul regime di terrore instaurato, la corruzione delle menti, su ogni genere di persecuzione, filtrando le informazioni attraverso la sua personale sofferenza, i maltrattamenti subiti, i diversi tentativi di sottrarsi alle maglie della polizia di Stato, la cattura, il carcere durissimo raccontato con spaventoso realismo, l’umiliazione di una forzata riabilitazione.
E poi la paura della delazione, il tradimento degli amici più cari, ma anche la fedeltà di quei pochi che all’estero manterranno viva negli anni la sua voce e le sue opere, e che alla fine riusciranno a farlo espatriare negli Stati Uniti.
“Prima che sia notte” trabocca di eccessi. Agguanta la vita, Arenas, e tenta disperatamente di trattenerla, innanzitutto col corpo, vorace recipiente di desiderio, incarnato da una serie infinita di amanti, da una girandola impazzita di incontri con uomini di tutte le età e le classi sociali. Poi con la disperata ricerca di cibo, martirio suo e di tanta parte di connazionali. E con la marea delle parole, con cui cerca disperatamente di convincere ogni nostro dubbio, dure parole sugli effetti di una politica repressiva, che uccide le coscienze, che impoverisce il capitale umano oltre che economico, che toglie radici e credibilità anche all’estero, dove un rifugiato non è altri che un essere sradicato, scomodo perfino per il paese ospitante. Infine, c’è passione anche nell’amore per la terra d’origine, nostalgia profonda di paesaggi meno martoriati, il desiderio dell’occhio di restituire dignità ad un territorio piegato alle logiche della propaganda.
Le prime e le ultime pagine del libro raccontano un tragico epilogo, il suicidio dopo la lunga lotta contro l’AIDS, estremo atto di rifiuto di ogni sorta di sopraffazione e di condizionamento. Estremo eccesso di vita.