Il tuo orgoglio, nascosto in apnea nella tazza di caffellatte, ti rendeva completamente sguarnito di fronte ai suoi altalenanti umori. Nel museo vi lasciavate e vi ritrovavate tra una tabella informativa sull’Ottocento ed una mappa storica dell’Europa, accanto ad un video amatoriale o una riproduzione d’autore; come ad intraprendere una ritmica danza ad allontanarvi per poi riavvicinarvi, onde avere l’impressione di accostarvi ogni volta sempre più vicino, abbastanza affinché lei potesse essere sfiorata dal tuo gomito tremolante, affinché tu potessi avvertirne distintamente il buon profumo di cedro.
Anche quella sera eri rimasto a debita distanza fino alla chiusura, pur se meno attento del solito nel controllare i visitatori, concentrandoti piuttosto sui suoi capelli corvini, i suoi occhi dal taglio irripetibile, la sua scollatura sapientemente evidenziata da un reggiseno cipria e nero, di pizzo, sotto la camicetta lilla. Fino ad allora eri stato immune al suo fascino, considerandola semplicemente una persona piacevole, ma cominciando a guardarla come una ragazza piacente, allora c’era da decidere da che parte stare. Disegnavi il confine del lecito con una colossale matita di sabbia, che si polverizzava non appena lei ti chiedeva di rammentarle per la seconda volta, in parole meno vaghe, come individuare la differenza inconfutabile tra un Monet ed un Manet. Nel ringraziarti riconoscente, la sua implacabile silhouette attraversava il sipario della “Sala Azzurra”, proiettando in controluce una mappa definita dei tuoi desideri inconfessabili; inutile il tuo goffo sforzo di mutarne le marmoree curve in un semplice Canova, ogniqualvolta si fletteva con garbo a raccogliere volantini lasciati cadere sulla moquette dai visitatori.
Eppure, oggi non vuol saperne di parlarti; sembra evitarti come la peste ed ha persino scelto l’Adagio per archi di Barber come primo brano di sottofondo musicale nei saloni. Nel suo sapiente districarsi tra coppie di anziani americani ed alcune chiassose scolaresche, tutto ciò che ti concede è un pungente aroma di zibetto. Infilando e sfilando la biro dal cappuccio, ne osservi i movimenti rapsodici con incantato coinvolgimento, mentre le sue curve non ti ricordano più né l’algida armonia di Canova, né la vivace magnificenza di Botticelli, ma stavolta ti suggeriscono una malinconia in penombra di Caravaggio.
Ti accontenti, ormai, di carpire quanto possibile volta per volta; con lei, era come gattonare nel buio. Cercavi spesso d’afferrare i filamenti dei suoi capelli neri sulla linea di un imperscrutabile orizzonte d’infatuazione, per poi ghermire nulla più del tuo bianco sospirare a mento basso. A volte, d’improvviso, ti sembra di intravedere la sua porta al termine del frastagliato labirinto, presso un sottile caleidoscopio di luci, per poi realizzare il trompe-l’œil ad un passo dalla maniglia. D’altronde, Ada l’aveva puntualizzato sin dal primo giorno; lei, ti sussurrò con una punta di civetteria, per metà rischiarata dal chiarore dell’abat-jour, era dei Gemelli.