Persia, 1852. Tahirih Qurratu ‘l-Ayn, studiosa e poetessa, viene strangolata brutalmente da un gruppetto di soldati ubriachi, e, secondo il suo volere, gettata in un pozzo e ricoperta di sassi. Contemporaneamente, a Teheran, la Madre dello Shah ordina massacri in tutta la città: migliaia di cadaveri assassinati diventano il capro espiatorio dopo che alcuni fanatici religiosi hanno tentato di uccidere lo Shah.
La poetessa di Qazvin aveva un potere straordinario, oltre che tanto semplice e puro da sembrare più che umano: non aveva paura di dire la verità e di cercare di insegnarla, in un tempo in cui il potere si serviva di torture e pubblici massacri per soffocarla. E, in quanto donna, era ancora più osteggiata, se pensiamo che la nascita di una femmina era considerata tragedia maggiore che la nascita di un bambino morto. La Madre dello Shah la detesta, la disprezza, ma il popolo, in particolare quello femminile, si innamora di lei.
Imprigionata nella casa del primo notabile, offerta allo Shah proprio per diventare un carcere, conquista in poco tempo l’affetto di tutte le donne di casa e poi anche quello delle vicine, delle amiche. Insegna loro a leggere e a scrivere (capacità inaudite per una donna del tempo), a conoscere se stesse, a vedersi per quello che sono veramente, a cancellare dalla loro mente l’immagine di marito-padrone come unica possibile scelta di vita onesta. Le ipnotizza con il suo fascino umile, vede dentro i loro cuori ed esse scorgono nelle sue parole, nei suoi versi una verità che è sempre stata dentro di loro, ma che non sono mai state in grado di comprendere, tanto meno di mostrare all’esterno. “Tutti sembravano stregati da quella voce color di rosa che fluttuava nell’aria. Tutti erano ebbri del vino delle parole della poetessa di Qazvin”.
Ma perché la poetessa è stata messa in carcere? Ufficialmente è accusata dell’omicidio dello zio, un mullah; il delitto, tuttavia, era già stato rivendicato. È chiaro che la poetessa è condannata per la sua intelligenza, fastidiosa sia per il marito e cugino, sia per il mondo religioso. L’imprigionamento della donna scatena dispute nel paese, tra lo Shah, affascinato dalla sua figura, la Madre, che la vorrebbe solo vedere morta, il marito, che la vorrebbe giudicata dal tribunale ecclesiastico. Le donne erano punite dalla legge solo in caso di adulterio o di omicidio; anche se innocenti, a volte venivano uccise e massacrate dai familiari senza che essi subissero alcuna punizione, ma ufficialmente potevano essere condannate a morte solo per omicidio volontario o per infedeltà. Inoltre, una donna doveva essere colpevole di povertà per poter essere accusata di uno di questi due crimini: donne ricche o nobili venivano raramente punite. L’unico altro modo per guadagnarsi la morte era l’apostasia, ossia la rinuncia volontaria alla propria religione, che poteva essere giudicata solo dal tribunale ecclesiastico; in questo caso la donna deve anche dimostrarsi refrattaria al pentimento e dimostrare di aver invitato altre persone a seguire la sua via. L’ambiguità di questo mondo risulterà dall’indecisione di chi tiene in mano il potere su come punire questa donna così rivoluzionaria e coraggiosa, e dal macabro finale di questa vicenda.
La donna che leggeva troppo di Bahiyyih Nakhjavani è un libro potente: ci mostra, in un romanzo che mescola finzione e realtà, la condizione delle donne dell’epoca, la spietatezza di un potere autoritario imposto con la forza, le basse trame della corruzione e sopra tutto questo, la luminosità di una donna temeraria, che seppe sfidare leggi e tradizioni radicate da secoli, e che, insieme alla sua poesia e alla sua sapienza, regalò al mondo femminile la verità e la libertà.
“Non saper leggere e scrivere non è altro che paura. Lei voleva che fossimo senza paura, che vedessimo con i nostri occhi, sentissimo con le nostre orecchie e leggessimo da sole i libri della Creazione e della Rivelazione. Ci insegnava a correre rischi”.