Continuano a ricordarmi, ormai anche a distanza di circa due mesi, che l’ultimo libro di Massimo Gramellini “Fai bei sogni” è ai primi posti nelle vendite: trasmissioni televisive, classifiche sulle riviste ed on line, ed anche tra amici e colleghi circola la voglia e la tentazione di leggere un libro di cui l’autore stesso ha raccontato, con toni commossi e commoventi, il contenuto.
Perché, in effetti, si tratta di un contenuto alquanto “delicato”, cui è impossibile attribuire un segno minore, che cattura, imprigiona in una camicia di forza ogni tentazione critica.
Cosa dire infatti di un bambino che perde la madre in circostanze misteriose, che cresce attorniato da parenti e alterne figure femminili alla ricerca disperata di quella sostitutiva materna? Che da questa mancanza primaria deriverà una certa incapacità di accogliere la vita, di fare scelte che scongiurino la vittoria di quella parte sfiduciata di se stesso, votata al rifiuto e all’abbandono di ogni progetto?
In realtà, nulla. Non si contesta un’autobiografia, non c’è osservazione che tenga sulla verosimiglianza degli avvenimenti narrati, sono lì, testimonianza di chi c’era, col corpo e con la mente, e con una serie di alterne sensazioni, alcune liete, altre meno, alcune esaltanti, altre devastanti.
Considero invece lo stile.
Il giornalista Gramellini s’insinua nello scrittore Gramellini sporcandone le pagine come un cane con le zampe imbrattate che gira per casa: ci sono le sue impronte dappertutto. Gramellini giornalista ha uno humour delicato ed una spigliatezza votata alla linearità, che inevitabilmente cattura molti lettori, incluso chi scrive, ma quando il medesimo stile si distende sulla narrativa, il discorso cambia.
Le parole nel libro scorrono con un ritmo estremamente sostenuto, filano via in un’assenza quasi totale di descrizione, azzerando la profondità di ogni personaggio e riducendolo al rango di mero bozzetto. Il linguaggio, che si assume essere quello di un bambino, e successivamente di un uomo, cui riesce difficile evolvere a causa del trauma riportato, lungi dall’essere semplice diviene semplicistico, condito di frasi ad effetto, che non innalzano il livello dell’esperienza vissuta fino ad un piano più simbolico.
Guy De Maupassant affermava che: “…scopo del romanzo non deve essere quello di raccontarci una storia, di divertirci o di commuoverci, ma dev’esser quello di obbligarci a pensare e capire il senso profondo e nascosto degli avvenimenti”; gli scrittori migliori “nascondono la psicologia nel libro, come nella realtà essa si nasconde dietro gli avvenimenti della vita”.
Credo che questa affermazione valga ancora oggi per chi voglia scrivere, nonostante le infinite evoluzioni della narrazione nei secoli.
Basta pertanto la mera esigenza di raccontarsi, o anche il coraggio di rimanere scoperti di fronte alla propria verità, a giustificare un libro? Se così fosse, ogni testimonianza partorita sulla pagina scritta sarebbe di per se stessa ampiamente motivata, ma la vera letteratura non ha mai smesso di essere forza perché ha il potere di sublimare ogni esperienza e di restituircela carica di un significato più alto, e tocca a noi lettori abbandonare le tentazioni voyeuristiche, dettate dalla curiosità verso questo o quel personaggio, e rintracciare, con l’occhio della mente, in una parola non banale, nella perfetta tenuta emotiva di una frase, il corretto bilanciamento tra la nostra piccola essenza, ed una più ampia realtà, che ci sovrasta.