La mia professoressa di italiano e latino al liceo ripeteva continuamente che i critici letterari (ma anche i critici in generale) sono coloro i quali hanno studiato, erudendosi più degli altri, ma che purtroppo non hanno talento.
All’inizio pensavo che anche un’affermazione del genere rappresentasse una critica (dopotutto avevo solo sedici anni!), fatta da un critico (appunto) il quale forse non aveva neanche quel po’ di preparazione sufficiente a scrivere… di chi scrive.
Oggi invece mi sono convinta del fatto che forse è vero che chi riesce a parlare dei lavori altrui lo fa sì per diletto, spesso anche per mestiere, ma sempre, credo, con un pizzico di puro gusto personale.
Dopotutto chi, meglio dello scrittore stesso, può sapere cosa vuol comunicare, e anche cosa non vuole che arrivi al lettore?
Ecco dunque che questa forma del critico che fa da intermediario tra chi scrive e chi legge si colloca in quella dimensione del “personale”, che fa a pugni col vero significato della parola critica, originariamente associata all’esame approfondito di un’opera. Ciò di cui si parla oggi è perlopiù un’analisi, termine alquanto generico, spesso accompagnata da giudizi che da valoriali si trasformano appunto in personali. Giudizi personali che solo un lettore ha il potere (e il diritto) di esprimere.
Questo lavoro di critica e dunque di giudizio, fortemente promosso dagli addetti ai lavori, gioca un ruolo invasivo e spesso pericoloso per la diffusione di opere di autori più o meno conosciuti. Portando spesso ad una bocciatura preventiva e nociva di molte opere, degne invece di maggiore attenzione.
Un esempio “storico”, ma poco famoso purtroppo, riguarda la carriera dello scrittore e drammaturgo Giovanni Testori, conosciuto dai più per le sue poesie, poco per i suoi scritti teatrali, da subito, negli anni della loro pubblicazione, oggetto di censura da parte di critica e di case editrici. Esempio primo è la sua opera teatrale L’Arialda (1960), censurata poiché satura di riferimenti omosessuali e ambientazioni mistiche (lontane dalla natura e dal simbolismo cattolico, tipici dell’autore milanese). Proprio questo clamore nato intorno alla sua opera portò grandi nomi del teatro, della letteratura e del cinema a schierarsi nei confronti dell’autore, primo fra tutti il regista Luchino Visconti che, per protestare contro la censura e contro il divieto di rappresentazione dell’opera, si rivolse all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, però si rifiutò di riceverlo. Nonostante questo rifiuto, nel 1961, lo stesso Visconti riuscì a mettere in scena l’opera (con l’ausilio peraltro di illustri attori).
Fu solo grazie a questa lunga scia di polemiche e al lavoro del regista, che l’opera testoriana fu conosciuta dal grande pubblico.
Un autore tenuto nelle celle segrete della letteratura per molto, troppo tempo, riportato alla luce tardi (da poco è stata pubblicata una raccolta di poesie del Testori dalla casa editrice Mondadori), quando, potremmo dire, a leggerne le opere sono stati finalmente i primi veri critici.
E a chi accusa oggi il sistema editoriale di una compravendita di autori, opere e critica, purtroppo si può solo rispondere che il tempo delle trasparenze è terminato nella notte dei tempi, quando l’unico percorso che queste ultime compivano era quello mente – carta – cuore.
Retorica.
C’è un modo per tornare a vedere, per ristabilire i ruoli (anche sovvertendoli)? C’è quando si pensa ad un lettore consapevole, c’è quando si legge una critica di valore.
Giovanni Testori avrebbe detto che oggi “l’uomo e la sua società stanno morendo per eccesso di realtà; ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome. Dunque, d’una realtà irreale”.
Io dico che dobbiamo poter scegliere la nostra realtà, anche quando leggiamo un libro.