Cinque racconti cinque, come direbbe Giuseppe, racconti presenti nel suo primo libro dal titolo Le strane abitudini del caso, curato e pubblicato da Eliana e Chantal Corrado, patron della casa editrice Scrittura e Scritture, piccolo e raffinato spazio nel quale la letteratura si trasforma in carta e inchiostro.
E Giuseppe, napoletano d’appartenenza, attraverso questi cinque racconti cinque, esce dalle “scrittura di genere” o “di moda”, perché la sua è forgiata con altra pasta, quella di una tradizione atavica nel tessuto mediterraneo, presente nelle pieghe del corpo nudo di quelle città o villaggi di cui è pieno il nostro mezzogiorno.
Mi riferisco al “barocco letterario”, termine oggi desueto se non mal visto e che pure conta illustri antecedenti (Tommasi Di Lampedusa, Sciascia, e, primo tra tutti, Giambattista Basile con il suo Lo cunto de li cunti).
Ma perché sono andato a disturbare un modo di rappresentare (il barocco) così lontano e distante da tutto e da tutti? Perché in questi cinque racconti c’è il senso di un limite e, al tempo stesso, la possibilità che questo limite sia sfrangiato, perché da un lato c’è ciò che il senso comune chiama realtà e dall’altro lo spazio inesplorato della fantasia e del sogno. Allora la domanda vera dovrebbe pressappoco suonare così: è possibile che tra questi due mondi ci sia una confusione di coordinate? Solo la densità di scrittura, l’uso misurato di metafore e parole assonanti, solo questo ci restituisce la possibilità logica di un’impossibilità, presente nei cinque racconti de Le strane abitudini del caso.
Ne La città incantata, “Anche quel giovedì 7 di dicembre, ennesimo giorno d’una settimana qualunque di un anno qualunque di quasi fine millennio, si annunciò con il sole e con il solito cielo di vetro, d’un azzurro flagrante, sospeso lassù, come un infinito indugio del tempo” (così l’incipit del primo racconto della raccolta). Sì, a Napoli può succedere anche questo, che a dicembre ci sia aria d’estate. Storia di attese che qualcosa cambi, ma non troppo però, anzi che non cambi proprio niente perché altrimenti ci sarebbe uno stravolgimento nelle abitudini, e poi c’è Antonio Cappa, “laureato in filosofia da almeno vent’anni, di mestiere venditore ambulante di ombrelli, ormai disoccupato, anzi già pensionato a causa di quell’estenuante, forse definitivo capriccio del clima…”. Antonio Cappa ogni sette anni va incontro all’amore e proprio in quel giorno la città è in fibrillazione perché qualcuno ha previsto il ritorno alla normalità. Ma la normalità si rivelerà una chimera per entrambi e il tempo continuerà a scorrere come prima.
Insomma i suoi racconti sono di questa materia. Un carcerato, che, una volta libero, rincorre una donna vista e intravista da dietro le sbarre per accorgersi che niente è vero, o uno scrittore che va all’appuntamento con una sua appassionata ammiratrice, e, giunti all’appuntamento, nessuno dei due si riconoscerà per la semplice ragione che sono troppo diversi dall’immagine mentale che ognuno s’era fatto dell’altro.
A Giuseppe gli si può perdonare la sua diffidenza per tutto ciò che è tecnologicamente più avanzato di una buona macchina da scrivere o la sua resistenza all’uso di parole sciatte, gettate lì a caso, gli si può perdonare tutto ciò perché altrimenti questi cinque racconti sarebbero stati diversi da quelli che sono (“piccola storia ignobile mi tocca raccontare, così solita e banale come tante, che non merita nemmeno due colonne su un giornale”, avrebbe detto Guccini). E gli si può perdonare anche il suo vecchio Swatch a cui un giorno mi avvicinai per scoprire che funzionava al contrario di tutti gli orologi di mia conoscenza, perché nei suoi racconti c’è l’idea di un tempo-non tempo con cui i personaggi devono fare i conti.
Non sono nemmeno d’accordo con quanti sostengono che nella sua scrittura si faccia abbondante uso di un pessimismo alla Leopardi. Ogni passaggio, ogni transito si fa carico di una buona dose di nostalgia, cosa diversa dal pessimismo. Se mai c’è un’accettazione che la vita è così e alla fine sullo scenario appaiono personaggi cresciuti all’ombra di “piccoli equivoci senza importanza”.
E anche questo libro appartiene alla storia del destino e del caso.
Peccato che non ci sia uno scrittore disposto a raccontarla.