Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene,
non trovano mai riposo né contentezza;
e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua,
e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via.
Tu te ne andrai da un luogo all’altro,
come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno;
ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue,
perché il tuo sangue è come un animale doppio,
è come un cavallo grifone, come una sirena.
E potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto,
fra tanta gente che s’incontra al mondo;
però, molto spesso, te ne starai solo.
Un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia:
c’è sempre qualcosa che gli fa ombra,
ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso,
come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro.
“L’isola di Arturo”. Elsa Morante.
Il figlio di un sangue-misto non ha mai radici, gira invano per il mondo in cerca di una meta che il suo sangue riconosca. C’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro.
Ma in fondo, non è forse il destino della maggior parte di noi? Vagare di luogo in luogo, di persona in persona, di occhi in occhi solo per trovare un cuore da chiamare casa? Solo per trovare degli occhi nei quali fermarsi e sentir spegnere la voglia di viaggiare, di andare lontano, sentir tacere la voce del sangue che chiama, che spinge ad andare oltre, sempre più oltre, al di là dei confini della mente e della terra. La voglia di viaggiare ci viene pompata nel cuore, i cui battiti aumentano quando il piede si posa su terre straniere e l’occhio vaga per luoghi mai visti prima.
Ma come diceva Kavafis, e come riprende la Morante in questo passo de “L’Isola di Arturo”, andarsene non serve, perché non faremo altro che inseguire un destino che ci aspetta, in un modo o nell’altro. Perché in fondo siamo tutti sangue-misto, abbiamo tutti nature diverse dentro di noi, che si scontrano e riscontrano per non farci trovar pace e contentezza in alcun luogo.
Tu te ne andrai da un luogo all’altro,
come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno;
ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue…
La stessa Elsa era così, perennemente insoddisfatta, sempre alla ricerca di qualcosa, sempre a scavare dentro se stessa, dentro i suoi personaggi per viaggiarvi e perdersi.
Viaggiava nel mondo in modo costante e quasi affannato, con un tormento che caratterizza tutti i suoi personaggi, così introspettivi, così simili tra di loro, così tesi all’irrealtà a costruire dei mondi propri, nei quali si… perché no, viaggiare e creare e visitare e scoprire e amare e morire allo stesso tempo. Un’altra vita nei loro occhi, che sembra di vederli, se si legge anche solo una pagina di questa grandissima scrittrice che intrecciava poesia e narrativa nello stesso momento.
Ve ne parlo, perché quest’anno è il primo centenario di una delle poche scrittrici italiane che si sono contraddistinte negli anni di metà Novecento. Perché i suoi mondi sono favole, ma favole imbevute di realtà, perché dietro ogni nome e storiella vi si legge il mondo vero, vi si leggono le sfaccettature delle persone, le più disparate; potete scorgere le radici di ogni sentimento, e dietro ogni virgola, ogni riga, c’è la voce di una nomade, come l’uomo descritto in questa lettera/poesia, ed è la voce di chi è sempre andato alla ricerca dell’oltre.