Lupetto scarpagnava. “Scarpagnare vuol dire camminare a saltelli per via del dislivello” dice il Benni. Lupetto, dunque, scarpagnava, sù, in un paesino in montagna, lasciandosi abbandonato nella vegetazione italiana. Un’Italia a metà del secolo ‘900, un’Italia in pieno boom economico, una penisola che non ricordiamo, che solo il Benni ricorda e rimpiange.
Lupetto scarpagnava dunque, era piccolo sì ma valoroso e utopico, un puer senex padrone di una conoscenza ingenua e disillusa che lascia a bocca aperta chiunque vi si trovi faccia a faccia. Un bambino delle campagne, dunque è lui il protagonista di questa storia? Una domanda complicata a cui rispondere, senza aver spiegato un minimo di trama.
Lupetto era un bambino che andava alle elementari, scarpagnava e sognava, ed è al suo cospetto che si mostra un dio Pagano, che ricorda molto gli dei venerati nelle campagne italiane sino ai nostri giorni, fino a quando le comunicazione, le televisioni, Sky e i telefoni, non hanno cambiato ogni cosa, non hanno cambiato questa penisola, le sue tradizioni e l’infinito desiderio panico dei suoi abitanti. Il dio si para dinanzi allo sguardo del bambino dicevamo, e quella che sembra a prima vista una montagna di peli enorme, sporca e poco “carina” nell’espletare i propri bisogni fisici, fa dono ad un bambino, ad una giovane Italia, del potere di spostarsi nel tempo. Il potere viene dato nelle mani di Lupetto grazie ad un orobilogio, dopodiché senza parole il dio si fonde nella propria terra e un giovinetto si trova a crescere sapendo già cos’accadrà, perdendo il conto dei giorni, lo spirito della sorpresa, degli imprevisti.
Si dice che un autore ricorra all’espediente della “macchina del tempo” quando si trova in crisi creativa, ma io non sono di questo parere per il Benni, egli non è un autore in crisi ma un uomo malinconico, un uomo che ripercorre nelle scampagnate di un bambino la storia della sua adolescenza, della sua giovinezza, del tempo perso, forse, nelle scarpe dal sapore amaro che indossano sempre i ricordi.
Lupetto si trasforma quindi in Saltatempo, attraversa il boom economico, il sesso dei sessantottini, l’eroico rock degli anni ottanta ma anche della politica che divora le regioni, delle scoperte che cambiano il rapporto dell’uomo con la natura, degli amori, delle passioni ed anche della morte che arriva sovente, senza scelta, senza scampo. Un libro orgoglioso, lo definirei, ma di sicuro si può condividere l’opinione che sia autobiografico, forse persino sporcato dall’inchiostro industriale del darsi da fare in tempi difficili.
Le difficoltà da affrontare, avendo a che fare con l’autore di libri dal calibro di Bar Sport e Terra! però, sono davvero tante. In primis c’è da fare i conti con lo stile che varia a seconda dei capitoli, da serioso a divertente a macabro, con una volubilità così trash da consigliare di evitare alcuni passaggi che, secondo il mio parere, sono stati aggiunti in un secondo momento, in virtù del senno di poi. L’altra difficoltà che si pone dinanzi ci è invece offerta dal personaggio principale, il quale, viene speso come un manichino spersonalizzato, senza la benché minima ombra di sensibilità umana, il che potrebbe portarci a due conclusioni, e cioè che o il Benni ha creato una spersonalizzazione così elevata per rispecchiare l’abbandono di ogni cognizione del tempo da parte di Lupetto, il che però non sembrerebbe confermato dall’andamento della storia che lascia recuperare al bambino lucidità in alcune scene meno brillanti, oppure l’autore si è lasciato prendere la mano, dimentico del proprio protagonista rotolato nella scia degli eventi e recuperato per pochi attimi solo per sorreggere l’impalcatura della trama.
Qualunque siano le considerazioni del lettore in merito, va detto che il libro nel suo complesso è comunque armonioso e sino alla sua ultima pagina, corteggia il lettore con una dolcezza tale da dilazionare la sensazione amarotica, solo dopo aver chiuso il retrocopertina.
Ci si chiedeva dunque se fosse Lupetto il protagonista della storia ebbene, in base a queste brevi considerazioni, sembra abbastanza chiaro che questo bambino è solo il fantasma di un’Italia in movimento, di una trasformazione continua che coinvolge l’essere umano, di un desiderio di vendetta di un popolo inerme dinanzi alle porte del passato e del futuro, un popolo di persone convinte che le cose non cambieranno mai e che l’Italia sia costretta a deporre le armi della speranza brandendo quelle del proprio fallimento. Un popolo stanco di camminare come i gamberi: con lo sguardo innanzi, mentre si corre indietro.
Noi ci abbiamo creduto, la nostra vita è stata piena di porcherie e meschinerie, ma ogni tanto suonava la tromba e tutti al nostro posto a lottare e a darci la mano. Abbiamo creduto di poter essere liberi, di non far tornare quei vent’anni di divise nere. Ma la tromba suona fioca adesso. Ci hanno venduto, uno per uno. Hanno venduto le nostre povere vite e la nostra storia, per fare una storia insieme agli altri, una storia finta, che non ha neanche un lieto fine, finisce nell’indifferenza per tutto e per tutti.