“Ho ascoltato una storia una volta, una di quelle che si perdono nel tempo e si ritrovano nei ricordi. Vera o meno non lo so. Ma mi piace pensare che negli occhi di qualcuno potró rileggerla. Ecco perchè la lascio a voi.”
(Chiara A.)
Ci andavo spesso in quella pizzeria di Posillipo.
Una meta obbligata nei miei ritorni a Napoli, e ci andavo di sera, sul presto, alle sette, massimo sette e mezzo, perché le idiosincrasie mi piaceva gustarle in solitudine.
Ma una sera nella saletta c’era un tipo con un giornale aperto, a qualche tavolo di distanza dal mio solito.
– Anche lei è uno che mangia sul presto, vedo…
La voce dell’altro s’intromise tra pensieri che di tanto in tanto mi attraversano le sinapsi.
Il signore si alzò e venne a sedersi al mio tavolo.
– In due si mangia meglio, non trova?
No che non trovo, stavo per dirgli, ma le pizze erano già davanti a noi.
– La mia passione sono le Chesterfield – e aggiunse – sì, sì, le Chesterfield, le sigarette, lei fuma, no?
Al mio cenno di assenso, il volto gli s’illuminò di un sorriso complice e infantile.
– Bhé, questa mia passione la devo a don Salvatore… e poi a mio padre… insomma una faccenda un po’ complicata…
Si fermava, addentava, stropicciava il tovagliolo.
– Ma don Salvatore chi è?
La mia domanda la prese come un’anomala ingerenza.
– Ma allora lei non sa niente… mi sa che mi tocca raccontarle tutta la storia.
Don Salvatore? Ma sto parlando di Quasimodo…
Un tempo don Salvatore a Napoli ci veniva spesso. Prenotava all’hotel Vesuvio, sa quello bello che affaccia sul mare e ci veniva con una bella donna, giovane rispetto a lui, amica, amante? e che ne so e poi non è che m’importa più di tanto.
In città aveva impegni editoriali, curava una collana di giovani poeti, ma poi di sera si presentava a casa nostra, a Posillipo, e Maria, la donna di servizio nonché cuoca, gli faceva trovare spaghetti a vongole e cefalo al forno, don Salvatore abitava a Milano e lì, diceva, il pesce non sanno cucinarlo. Ma a Napoli don Salvatore ci venne anche a morire. Una botta al cuore, fumava trenta, quaranta Chesterfield al giorno, amava le belle donne, il vino, la tavola. Mio padre l’andò a trovare la sera prima che morisse, era ricoverato alla Mediterranea, sa la clinica che sta a Mergellina, e don Salvatore gli mise in mano un pacchetto di Chesterfield, l’ultimo, da conservare come una reliquia.
Io di tutto questo non sapevo niente, vedevo un pacchetto di sigarette sulla scrivania di mio padre e ciò mi bastava.
I mesi passarono, e gli anni pure.
Una volta rientrai sul tardi, ero solo, i miei viaggiavano molto, mi rovistai nelle tasche e non ci trovai neanche mezzo mozzicone. Saccheggiai allora quel pacchetto di sigarette dimenticato.
Me lo fumai tutto, e poi mi addormentai.
Al mattino, però, Maria, che mi svegliava sempre con un caffè, lanciò un urlo fissando la carta accartocciata e le cicche. Lei, sì che la storia delle Chesterfield di Quasimodo la conosceva e con una voce tremante disse e adesso a tuo padre chi glielo racconta? E io niente paura, scendo e prendo un pacchetto uguale. Così non se ne accorge.
Nel giro di un paio di minuti ero già alla ricerca.
Andai dal mio solito tabaccaio. Al signore dietro la cassa dissi che volevo un pacchetto preciso e identico a quello che avevo in mano. Lui guardò l’involucro, scuotendo la testa, brutto segno, pensai, e infatti mi mostrò una scritta piccola piccola in inglese nascosta tra le pieghe, questo significa che queste non sono Chesterfield d’importazione, ma vengono dalle navi o direttamente dall’America. Solo un contrabbandiere può dartele, disse alla fine dell’ispezione.
Frugai tra tabaccherie e contrabbandieri. Per tutta la città. Salivo e scendevo dai pullman. In negozi piccoli e grandi, o in bassi bui. La risposta era sempre la stessa, no, queste non le trovi.
Di sera mi trovai dalle parti della Stazione e andai per i vicoli del Vasto. Senza speranza, scesi i tre gradini di un negozietto che vendeva di tutto, una vecchia mi fissò con aria sospettosa e anche a lei mostrai il mio pacchetto. Fece un cenno come a dire non ti muovere e a fatica si arrampicò fino al vicolo. Aspettai non più di dieci minuti e tornò con le Chesterfield, identiche alle mie.
A casa misi al suo posto le sigarette false e, intanto realizzai che m’ero fumato quelle di Quasimodo e per alcuni giorni mi sentii importante. –
Il signore guardò l’orologio, come si è fatto tardi, devo proprio andare, fece e di scatto s’alzò, passò nell’altra sala, pagò e scomparve.
L’aereo decollò in perfetto orario. Girò un po’ sopra la città e poi sul mare. In due ore sarei stato a Marsiglia.
Ripensavo a Quasimodo e alle sigarette e mi chiedevo quanto ci fosse di vero nella storia che quello strano tipo m’aveva sciorinato la sera prima.
Intanto rileggevo una delle poesie di don Salvatore, Tindari, mite ti so Fra larghi colli pensile sull’acque Delle isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore, e poi guardai dall’oblò le colline pietrose e le case, cose appena immaginate viste dall’alto.