“La facilità di scriver lettere – considerato puramente in teoria – deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. E’ infatti un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere. Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro attraverso le lettere?”
– Franz Kafka, Lettere a Milena
Se volessimo ripercorrere la storia della lettera, intesa come quella forma di comunicazione scritta che ha messo in contatto persone lontane ed ha accomunato civiltà diverse per tempo e spazio, si dovrebbe partire da molto lontano. Ma quello che ci interessa, più che dare coordinate storiche, è raccontare lo scambio confidenziale e privato che ha ispirato gente comune e scrittori di un certo calibro. Gli esempi sono vari, dalla nonna del piano di sopra al letterato studiato a scuola.
Come non pensare alle lettere di Cicerone durante il suo esilio? Una disperazione trasferita sulla carta, indirizzata all’amico Attico. O alle lettere di Leopardi che, disperato, si rivolgeva a suo padre?
Le lettere sono state gli sfoghi personali di qualcuno, o la fortuna di qualcun altro. Mary Shelley col suo Frankenstein, Richardson con Pamela. E ce ne sarebbero molti altri.
Non è un caso che Melville lasciasse morire tristemente il suo immaginario Bartleby, impiegato nell’ufficio delle lettere smarrite, concludendo così un racconto pieno di umanità vera :
“Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti?Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Qualche volta dal foglio piegato estrae un anello – il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; […] parole di perdono che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O Bartleby, o umanità!”
Verso il dimenticatoio, aggiungerei. I migliori ricordi di una storia d’amore, le prime notizie lontano da casa, l’ansia dell’attesa. Tutto dimenticato. Spazzato via dall’era del digitale, della velocità, del tutto e subito.
Eppure esistono i ricordi, legati all’odore della carta, al profumo spruzzato un po’ malamente, magari sbavando l’inchiostro.
Esistono i momenti passati, che abbiamo trascorso appartati, in cui ci siamo seduti e abbiamo iniziato a scrivere, e l’abbiamo fatto nella convinzione che l’incisività di una corrispondenza epistolare fosse più importante della rapidità dell’arrivo a destinazione.
Non si meraviglino di questa vena nostalgica le persone dal carattere pratico, cui importa l’aspetto formale della cosa. Nessuno nega la validità del progresso. E infatti non stiamo auspicando un ritorno ai tempi dei piccioni viaggiatori, sia chiaro, sono tempi passati. Penserei piuttosto ad una rivalutazione della scrittura epistolare come un più che degno veicolo di comunicazione privata. Soprattutto quando si ha l’avvertimento che comunichiamo poco e male.
Sicuramente una metà della gente non lo ricorda nemmeno, non ricorda l’approccio alla lettera da scrivere come alla persona cui si sta per fare una vera confessione; ma la mia metà ne ha memoria (un po’ letteraria, un po’ tramandata) ed ha ancora voglia di ritagliarsi il tempo per scegliere le parole giuste per una lettera speciale.
Regaliamo dunque buste da lettera, cosicché la volta prossima il postino porti non solo bollette da pagare ma notizie attese e buone.