Mi sono imbattuto nella storia di Becley Aigbuza per puro caso.
Becley è un giovane nigeriano gay che dal 1994 vive negli Stati Uniti. Nel 2008 si reca in Nigeria per rivedere una zia paterna con cui aveva trascorso l’infanzia. Dalla donna, però, è denunciato per le sue tendenze sessuali. Prelevato dalla casa della zia e portato in una caserma, viene pestato prima dai detenuti a cui la polizia aveva riferito della sua omosessualità, tre agenti, poi, lo seviziano ripetutamente.
“Dopo aver dovuto ammettere davanti a loro che ero gay, i poliziotti mi hanno legato, bruciato la fronte con del cotone imbevuto d’acido e mi hanno sodomizzato a turno, per ore, con una bottiglia di birra. Mi sono risvegliato nell’ospedale di Benin City, con una spalla slogata, una mano rotta, ecchimosi e ferite su tutto il corpo e un testicolo mutilato. Ero stato tradito dalla mia famiglia, punito solo perché amavo una persona del mio stesso sesso.”
[Becley Aigbuza]
Riesce a scappare e, grazie all’aiuto di un parroco che gli procura un falso passaporto, a imbarcarsi su un volo per San Diego.
Al suo rientro negli Stati Uniti denuncia all’ambasciata del Niger le violenze a cui era stato sottoposto. La risposta del funzionario è secca. “Come gay, meritavi quel trattamento”.
Nel 2011 Becley chiede la cittadinanza americana, ma le autorità scoprono che il giovane nigeriano aveva commesso un reato qualche anno prima. Becley aveva fatto richiesta di una carta di credito sotto falso nome. La domanda viene, quindi, rigettata e le autorità avviano la procedura per il rimpatrio. La prossima udienza è fissata per il 28 febbraio. Se Becley torna in Nigeria, rischia la pena di morte. Ciò si può leggere sul sito di EveryOne (associazione umanitaria che combatte per la tutela dei diritti di tutte le culture), www.everyonegroup.com, attraverso il quale è possibile inviare una mail alle autorità americane affinché a Becley venga garantita immediata protezione umanitaria ai sensi della Convenzione di Ginevra e della Convenzione contro la tortura.
La cultura laica deve farsi carico di queste storie, trasmetterle e, se possibile, intervenire pena lo sgretolarsi dei presupposti da cui è nata.
Il laico crede nella libertà, nel rispetto, nella dignità. Ciò significa che la libertà è un valore solo se rapportata al rispetto che ogni persona deve all’altro, salvaguardandone la dignità. Nello spazio sociale le richieste della laicità sono più articolate.
I laici, non importa se atei, credenti, agnostici, rifiutano di fondare la politica, le istituzioni e la convivenza sociale su basi fideistiche o teologiche, fanno proprio nel discorso pubblico un orizzonte etico non assoluto in grado di contemplare la pluralità delle ragioni e l’apertura critica verso di esse, non transigono sui diritti di libertà e sulla neutralità dello Stato verso ogni confessione religiosa (è appena il caso di notare che un’impostazione del genere rende possibile la coesistenza delle varie fedi religiose).
Ciò non è un aggrovigliato giro di parole, ma il perno su cui si basa la nostra Costituzione e le varie Dichiarazioni Europee in merito ai Diritti Umani.
La domanda da porsi è se sia possibile un dialogo con chi al contrario fa della propria verità un paradigma unificante delle coscienze e un modo per influenzare la decisione politica. Il riferimento alla Chiesa di Roma, quella più prossima a noi, è evidente. Il laico, pur distanziandosi da ogni visione tesa ad assumere un significato assoluto, deve saper cogliere, all’interno degli organismi istituzionali e nel sociale, spiragli anche minimi, di una possibile apertura al nuovo che avanza, che si manifestano nelle perplessità di cui si fanno portatori uomini e donne dedite al servizio pastorale, gruppi di cattolici o di altre chiese comunque ispirate al cristianesimo.
Il percorso della laicità, però, non è affatto agevole perché in questi ultimi anni gli attacchi alla sua esistenza si sono moltiplicati. Al pensiero laico si addebita la causa prima di tutti i mali che affliggono le società dell’occidente perché viziato da relativismo etico e nichilismo imperante (cosa peraltro discutibile), ma la cura proposta da vari movimenti è un salto nell’oscurantismo. Sintomatiche sono le prese di posizione delle gerarchie vaticane su un problema come l’omosessualità. Ne cito solo una.
“Includere la tendenza omosessuale fra le considerazioni sulla base delle quali è illegale discriminare può facilmente portare a ritenere l’omosessualità quale fonte positiva dei diritti umani.”
Da queste affermazione si ricava che per la Chiesa gli omosessuali non sono “soggetti di diritto”. Oltre a queste mura erette, esiste una realtà fluidificata da altre presenze che aprono se non proprio una possibilità di convergenza tra diverse visioni del mondo, almeno l’inizio di un discorso.
Nel 1977 Suor Jeannine Gramick e Padre Robert Nugent fondarono nell’arcidiocesi di Washington l’associazione New Ways Ministry allo scopo di promuovere “giustizia e riconciliazione fra lesbiche e omosessuali cattolici e la più vasta comunità cattolica”.
In Italia, poi, oltre 40 gruppi omosessuali si richiamano al cristianesimo e, infine, la Chiesa Valdese accetta tra i suoi membri gay e lesbiche senza alcuna discriminazione.
Sono solo piccole tracce di un futuro scrostato dalle incomprensioni.
Oggi si fa ancora più urgente la domanda laica alle istituzioni statali di proteggere l’autonomia e il pluralismo delle diverse opinioni, che poi significa un surplus di democrazia. Tutti noi, però, siamo anche convinti che nessun sistema politico si articola su modelli preconfezionati, e che l’individuo sociale è la somma di contraddizioni spesso insanabili.
Di tutto ciò il laico è più consapevole di altri, perché le sue affermazioni sono accompagnate dal dubbio che le cose non siano sempre come appaiono.