Alla Favola
Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
Che vestì prima d’esser fuoco
La mia grande stagione defunta
Per mutarmi in fenice lucente !
L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
Giace la vanesia mano
Pur se al gioco di m’ama non m’ama
La risposta celeste
Mi fingo.
Elsa Morante.
La poesia perfetta per introdurre un libro la cui trama è basata sulla favola, sulla finzione, sulla menzogna.
Menzogna e Sortilegio, appunto. Io la conosco bene, Elsa, e proverò a farvi entrare nel mondo di favola che popolava la sua mente.
Cos’è, in fondo, la finzione se non una veste, una maschera, che si modella a proprio piacimento sul proprio corpo? Per far sì che cada così sinuosa su di noi da sembrar innata?
Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste
La Finzione, che è vecchia quanto l’uomo stesso, è stata fuoco per così tanti, fuoco distruttrice, poi musa incoronata di alloro, e ancora fuoco che distrugge e fa rinascere dalle sue stesse ceneri. Non si smette mai di essere una bugia. Se il seme è dentro di noi, se è così radicato da crescere insieme a noi avrà ruolo primario nella vita, nel volto, sarà il filo delle vesti, sarà il filo di un telaio, un filo che nella tela della vita ripercorre con le sue fiamme e il suo fumo intere generazioni. È di questo che parla la seconda stanza della poesia.
L’ago è rovente, la tela è fumo.
Elsa paragona la vita ad una tela, in continua lavorazione. E si conclude spiegando ciò che ogni scrittore fa: si finge la risposta celeste, decide i destini e i perché di vite e generazioni intere, tutte vissute e respirate su pagine. Ma alla Finzione non importa, se son vere oppure no, perché essa si riversa anche su quelle vite. Forse è un modo della scrittrice di tenere a freno questo seme malsano, riversare cioè la menzogna nei suoi libri.
La poesia in questione si trova all’inizio del romanzo come fosse una dedica, infatti è intitolata “ Dedica per Anna”, una delle protagoniste del romanzo, la più malata, la più immersa nel mondo della finzione e delle menzogne.
La Finzione ha un suo fascino ammaliante, bisogna dirlo. Forse è la veste di cui si cingono anche le muse, o è il filo brillante di quelle vesti; quando si è bambini ci par così facile prendere per mano la bugia e giocarci fino allo stremo, anzi, è un età in cui confondere e abbattere i confini della realtà, fino a vederli veri, viene quasi spontaneo. Fino a credere che non ci sia affatto quel confine. Resta poi, con la crescita, con la ragione, soltanto un ombra, nel cuore o nella mente non lo so, di qualcosa di vago, che si riversa nei sogni, che riaffiora quando ci si incanta a guardare il cielo, quando ci si accorge di essere scrittori e la mano scorre veloce sulla carta guidata da chissà cosa. Ispirazione, Finzione? Non potrebbero, in fondo, essere la stessa cosa? Non potrebbe essere che ogni scrittore si finge di essere qualcun altro e raccontare una storia che in realtà non ha mai vissuto? Non potrebbe essere che invece siamo tutti vittime di questa musa rinnegata, che ci tenta per farci sfuggire dalla realtà quotidiana così banale, così uniforme, così scontata?
Ed è di questo che parla Elsa Morante.
Nel suo libro, nelle sue poesie, nella sua vita.
Voleva soltanto raccontare una favola, per non ricordarsi e per non far ricordare di quanto fosse triste il presente.
“Il presente mi pareva un’epoca perenne, come una festa di fate.”