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Quando gli opposti si attraggono: la catarsi del dolore Pavesiano nella poetica di Calvino

Si dice che gli opposti si attraggono. Mai verità fu più appropriata a descrivere la relazione, privata e professionale, che legò Italo Calvino alla figura – letteraria e umana – di Cesare Pavese, suo negativo e allo stesso tempo maestro. Introverso, asciutto e schivo l’uno, leggiadro, fiabesco e magnanimo l’altro, Cesare Pavese e Italo Calvino rappresentano due facce di una stessa medaglia, la notte e l’alba di un’Italia che cambia, esce dai confini della contrapposizione sterile tra campagna e città in cui la prosa pavesiana l’aveva relegata, e si veste di un realismo meno mortifero, di maggior respiro, grazie alla prosa “fantasiosa” – per affermazione dello stesso Pavese – e ironica dell’ultimo Calvino.

Quando Italo Calvino si affacciò al panorama letterario italiano, giovane neolaureato di belle speranze, Pavese aveva già vissuto in gran parte quelle esperienze che avrebbero condotto alla genesi di capolavori letterari come La bella estate e La luna e i falò. Mentre Calvino si formava, autodidatta, le sue primissime idee letterarie, Pavese era già passato attraverso una guerra (la Prima), il carcere, il confino. Già si avviava lento verso il baratro della depressione che l’avrebbe di lì a poco condotto al suicidio. Calvino colse nella poetica pavesiana un rigore morale che l’affascinò: scambiando il tormento interiore di un uomo provato per stacanovismo introspettivo, ammirò nell’opera pavesiana soprattutto l’onestà nella descrizione letteraria, quel neorealismo scarno e quasi crudo che faceva parlare la realtà senza intermediari.

Calvino era alla ricerca di un modello letterario cui ispirarsi: lo trovò in Pavese, che, nei cinque anni che durò la loro amicizia, considerò sempre un autore di riferimento imprescindibile per chiunque voglia porsi delle domande sulla condizione esistenziale dell’uomo. La prima produzione calviniana deve molto all’influenza del Pavese maturo: tanto che, all’uscita di Ultimo viene il corvo di Calvino, Giorgio Botta lo recensì con queste parole:

A leggere uno dei racconti di Italo Calvino, senza guardare la firma, c’è il rischio di confondere il suo mondo con quello di Cesare Pavese.

Italo Calvino vide in Cesare Pavese qualcosa che lo rapì al punto da volerne seguire le orme; cosa vide, e cosa invece trascurò di vedere, impossibilitato non dalla mancanza di acume, ma da un diverso modo di sentire? Ciò che ammiriamo nell’altro è sempre ciò che in qualche modo invidiamo; invidiamo certe doti, o certe qualità, perché ce ne sentiamo carenti. Calvino invidiò a Pavese, e conseguentemente ammirò nella sua opera, quella capacità di affondare nell’oscurità spesso sofferente dell’anima portandone alla luce i resti, e quella sensibilità pudica nello svelarli, che solo chi ha sofferto sulla propria pelle può avere. Cesare Pavese ebbe un’infanzia non facile: vide morire tre dei suoi fratelli e a soli sei anni suo padre, “tutti motivi” scrive Vincenzo Arnone, “per una preistoria letteraria e umana che avrebbe segnato la vita dello scrittore”. Calvino non conosceva il passato del suo maestro, né tantomeno aveva mai sospettato delle sue inclinazioni suicide, di cui anzi era completamente all’oscuro: e d’altronde non avrebbe potuto, perché, come egli stesso ha affermato, crebbe all’ombra di due genitori dalla personalità carismatica e avendo

…un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti.

Calvino non conobbe sofferenza, e ignorò la radice sofferta di quella capacità di introspezione pavesiana di cui ammirava la sfumatura deprimente, proprio perché non concependola, sapeva di non possederla. Il lato oscuro di Pavese che aveva tralasciato di vedere quando a tutti i costi voleva farsi suo successore, colpì in faccia Calvino come un pugno quel 27 Agosto 1950, quando Pavese si tolse la vita avvelenandosi di sonnifero, per chiudere per sempre gli occhi su un mondo insensato, di cui più degli altri avvertiva l’assoluta vacuità.

Il suicidio di Pavese marca così un profondo spartiacque nella produzione letteraria di Calvino, e probabilmente ne fa anche la sua fortuna: davanti alle incomprese ragioni del suo maestro, Calvino non può evitare il distacco, il superamento dei limiti della sua visione del mondo. Dieci anni sono sufficienti perché Calvino attribuisca all’opera pavesiana un valore circoscritto alla sua epoca, a quei tempi pazzi che lo uccisero.

Il lutto della perdita, elaborato, porta una voglia di resurrezione che ben si esprime nella prosa calviniana: lo stridore contrastante, l’attrito e la crudezza della scrittura pavesiana, circoscritta tra le due guerre, specchio di un’Italia che vive fortemente la contrapposizione tra vita di campagna e vita di città, sono del tutto assenti nella scrittura calviniana. Di quei contrasti, che non aveva vissuto, Calvino poteva dire ben poco. Se Pavese si immerge completamente nell’interiorità, senza paura di scoprire e sopportare dolore, Calvino resta sempre un po’ tra le righe, recuperando il piacere di raccontare per il piacere di raccontare, lasciando al lettore la libertà di scegliere da solo una morale. L’atmosfera dolorante della prosa pavesiana è assente nell’opera di Calvino, che (in linea con l’Italia degli anni Sessanta) guarda ottimista alla realtà, seppur con una vena di sarcasmo, di critica velata, di sorniona consapevolezza dell’esistenza del dolore. Un dolore che però non è vissuto come sentimento predominante, ma come semplice accidente, parte indispensabile della vita stessa, da accogliere non già come ineluttabile (alla maniera di Pavese, che vide nel suicidio l’unica via di fuga) ma con un amaro riso di compiacimento. Perché il dolore non genera morte, ma vita.